Di Daniele Ambrosini
Il problema più grande del Trono di Spade è, da tre anni a questa parte, non tanto la scrittura, di cui comunque è più che lecito lamentare le mancanze qua e là, ma l’impossibilità di soddisfare le aspettative del pubblico. Perché Il Trono di Spade non è più di una semplice serie tv, ma un vero e proprio fenomeno mediatico. La sempre crescente attenzione riservata dal pubblico nei confronti della serie ha reso, soprattutto dal momento in cui ha superato i libri di George R.R. Martin, il lavoro di David Benioff e D.B. Weiss molto difficile. Non solo per l’attenzione quasi maniacale che il pubblico avrebbe inevitabilmente riservato ad ogni singolo movimento di trama che avrebbero potuto ideare, ma anche per la necessità di rendere tutto sempre più grande, più spettacolare che ne è conseguita. E non sempre un prodotto più grande o spettacolare corrisponde ad un prodotto migliore.
Diventando sempre più grande, più spettacolare e sempre più costoso, Il Trono di Spade è diventato più bello, almeno a livello visivo. Se da un paio di stagioni a questa parte lo show sembra essere radicalmente cambiato, che lo si intenda nel bene o nel male, è anche per via del nuovo approccio visivo adottato dallo show, richiesto in parte dall’arrivo del famigerato inverno, ma in parte anche dovuto ad un investimento dell’emittente sul look della serie. Non solo una maggiore attenzione alla fotografia, che può addirittura concedersi di svolgere un ruolo diegetico, ossia narrativo, nella battaglia di Grande Inverno, come spesso avviene al cinema, ma anche un maggiore investimento su effetti speciali e visivi, quindi non solamente sulla CGI, che comporta soluzioni grafiche accattivanti e mirate, spesso riuscitissime.
Una regia sontuosa come al solito sfrutta al meglio tutte queste potenzialità visive. Unica nota negativa su questo versante è il non proprio eccelso lavoro di David Benioff e D.B. Weiss dietro la macchina da presa per il finale, molto derivativo di quanto fatto precedentemente da David Nutter e Miguel Sapochnik, i cui episodi avevano un’identità propria, riconoscibile e a loro facilmente ricollegabile, non proprio una cosa usuale in televisione. E proprio Sapochnick merita un plauso per il suo incredibile lavoro, perché se Nutter riesce a mettere in scena in modo sapiente le dinamiche di potere e i contrasti tra i personaggi, è a Sapochnik che spetta il compito di mostrare il punto d’arrivo di questi conflitti, sta a lui l’arduo compito di mettere Westeros a ferro e fuoco. “The Long Night” e “The Bells” sono due ottimi episodi soprattutto grazie alle intelligenti trovate registiche di Sapochnik, alla sua attenzione alle scene di massa, ai singoli dettagli che compongono il marasma della guerra, al suo sguardo vivo e vitale, sempre estremamente lucido e preciso sulla morte e la distruzione. Quest’anno vincerà sicuramente un Emmy per aver diretto uno dei capitoli più spettacolari della storia della tv, in futuro chissà, ma sicuramente ne risentiremo parlare.
L’ultima stagione de Il Trono di Spade è, innegabilmente, puro intrattenimento. Un’esperienza televisiva a tratti bellissima, a tratti disordinata, sicuramente piena, strabordante. E, cosa non meno importante, fedele a sé stessa fino all’ultimo, coerente sia nello spirito che nell’evoluzione dei suoi personaggi e nel discioglimento dell’intreccio narrativo. In questo caso il tempo è tiranno e alcuni elementi di trama finiscono per stonare proprio per la mancanza di tempo, e non per la mancanza di coerenza, come ad esempio la pazzia di Daenerys, che gli autori stanno seminando e suggerendo da anni e che, nonostante tutto, sembra comunque poco sviluppata per via del poco tempo che questa stagione, per forza di cose, gli ha potuto dedicare.
Interessante per il discorso della coerenza è anche la polemica sulle istanze politiche e sulle tematiche femministe: mai come in questa stagione è emerso quanto essere donna a Westeros sia un limite, ma ciò non è dovuto alle idee retrograde di un gruppo di sceneggiatori uomini, ma alle esigenze di realismo insite in una serie che, pur essendo un fantasy ambientato in un mondo immaginario, è comunque legata ad usi, costumi e politica del nostro medioevo, è il poco tempo a disposizione a non rendere evidente quanto in realtà certe logiche siano assolutamente coerenti all’interno di quell’universo narrativo. Ad esplicitare e rimarcare questa situazione c’è, nell’ultimo episodio, una battuta sulla democrazia, che giustamente nella medioevale Westeros è considerata un concetto risibile.
In definitiva, l’ottava stagione è la miglior conclusione possibile per una serie come Il Trono di Spade? Probabilmente no. Ma è una buona stagione? Assolutamente sì. Quest’annata della serie di Benioff e Weiss è stata un’esperienza travolgente che, al netto di tutti i suoi difetti e di tutti i suoi limiti, valeva la pena di essere vissuta esattamente così com’è. Che piaccia o meno si è fatta la storia della tv in questi sei episodi, e non solo per questioni puramente economiche o di audience, ma anche per gli incredibili risultati a livello produttivo, che avvicinano come non mai il piccolo al grande schermo. Il confine tra sala e salotto si fa sempre più sottile, ed in parte è anche grazie a Il Trono di Spade.