Di Francesco Vagnarelli
Ritorna una delle serie cinematografiche più inquietanti degli ultimi anni. Questa volta, però, dietro la macchina da presa troviamo l’australiano Leigh Whannell, al suo primo esperimento di regia dopo aver lavorato nell’ambiente horror (la saga di “Saw”) principalmente come sceneggiatore e produttore. James Wan, regista dei primi due episodi, ci ricorda la sua presenza in un cammeo di pochi secondi.
La trama è la classica del genere: una seduta spiritica finita male evoca un’entità maligna che trascina l’ignara protagonista in una spirale di terrore fino a condurla al limite dell’Inferno. Parallelamente il padre, una medium e due goffi “acchiappa-fantasmi” supereranno il proprio scetticismo e i propri limiti per salvare la ragazza. Gli elementi tipici del genere sono riproposti tutti con scontata sistematicità: una ragazza orfana di madre un difficile rapporto con il padre, un’anziana signora ritenuta pazza ma in realtà l’unica in grado di capire il terrore e il pericolo che corre la protagonista, una medium combattuta fra la scelta di abbandonare la sua professione o continuare a lottare contro il male, a rischio della sua stessa vita. Cronologicamente il fil si colloca precedentemente agli avvenimenti del primo film e, in effetti, non si riesce a trovare altro scopo del film se non quello di far chiarezza su alcuni aspetti lasciati aperti dai suoi predecessori. La struttura è la stessa dei capitoli precedenti: la dicotomia fra mondo dei vivi e mondo dei morti, le anime dannate che tornano sulla Terra per trascinare i vivi nella profonda oscurità dove vivono. Questo è il punto debole fondamentale del film (e dei precedenti). Porre questa dicotomia, questo scarto fra i due mondi, riduce tutto ad un orrore separato dalla realtà, che non suscita alcuna apprensione, poiché fondamentalmente la situazione terribile che vivono i protagonisti è scaturita da un volontario e consapevole desiderio dei vivi di mettersi in contatto con il mondo dei morti. Non è quell’orrore spiazzante, realmente demoniaco, che coglie i protagonisti nello scorrere quotidiano della vita, in cui lo spettatore può immedesimarsi e provare quella paura dovuta ad una voce silenziosa, ma insistente, che sussurra: “E se capitasse a me?”. In “Insidious” tutto questo è inesistente, poiché la domanda : “E se capitasse a me?” viene subito messa a tacere dalla considerazione che probabilmente mai in vita nostra ci rivolgeremmo ad una medium per metterci in contatto con il mondo dei morti. Dal punto di vista puramente estetico, gli appassionati del genere potranno riconoscere senza molta difficoltà numerosi omaggi (o furti?) a grandi capolavori del brivido: le inquietanti prospettive di “Shining”, gli ambienti di “Amytiville Horror” e i movimenti sconnessi de “L’esorcista”.
Da tempo ormai siamo abituati a non aspettarci molto dai film horror, tranne, forse, qualche spauracchio e salto sulla poltrona. “Insidious 3” fa eccezione? No. Il problema di queste pellicole, è che prima di essere “horror” sono, appunto, film. E, come tali, devono suscitare il piacere della visione. In questo caso non accade, sia perché Whannell calca eccessivamente la mano sui colpi di scena, tanto da non permettere allo spettatore di stare neanche un minuto senza sobbalzare, sia perché la storia è veramente inesistente, o peggio, vista e rivista. Il primo esperimento da regista di Whannell si trascina stancamente per un’ora e mezza fino allo scontato epilogo, offrendo a volta delle scene al limite del comico, che rendono l’ultimo capitolo della saga poco più di un teen-movie.
Voto 2/5