Di Daniele Ambrosini
Il 1973 è l’anno fondamentale per la nascita del moderno tennis femminile. In quell’anno un gruppo di tenniste statunitensi ha deciso di distaccarsi dalla ATP per fondare una diversa associazione tennistica, la WTP, con tornei e premi autonomi. Questa decisione fu presa per protestare contro l’associazione nazionale statunitense che si rifiutava di equiparare i premi in denaro dei tornei di tennis femminili alla controparte maschile che, spesso e volentieri, guadagnava anche il triplo.
Queste donne si presero un bel rischio a portare avanti la loro battaglia, infatti non solo non avevano alcuna garanzia di riuscita della loro organizzazione, ma uscire dalla ATP voleva dire rinunciare ai tornei del Grande Slam, tappa fondamentale per la carriera di un tennista professionista. A capo di tutto c’era l’intrepida Billie Jean King.
La battaglia dei sessi comincia proprio da qui, dalla fondazione della WTP, alla quale aderirono le più note tenniste dell’epoca, accettando un compenso iniziale di un solo dollaro. La sfida portata avanti da Billie Jean King fu quella di mettere su dal nulla un torneo nazionale di sole donne, interamente organizzato e promosso da loro. Il 1973 però è un anno di grande importanza per il tennis femminile anche per un altro fattore determinante: Bobby Riggs, ex tennista di 55 anni che sfidò prima la vincitrice del torneo della WTP Margaret Court, e poi la stessa Billie Jean King. Autoproclamatosi “porco maschilista”, Riggs è tornato sulla cresta dell’onda dichiarando che fosse giusto che gli uomini percepissero un compenso più alto in ambito sportivo in quanto sono più forti delle donne, e per dimostrarlo ha sfidato le tenniste più forti del mondo. Se la partita con la Court finì per essere un circo mediatico, il match con la King viene ancora oggi identificato come uno dei capisaldi del femminismo in ambito sportivo e viene ricordato come “la Battaglia dei Sessi”.
Il biopic è ormai un genere abusato dagli studios hollywoodiani che ne hanno fatto uno dei principali veicoli per la stagione dei premi. In tempi recenti perciò approcciarsi ad un film biografico è un po’ un azzardo perché il rischio di fossilizzarsi nelle strutture prestabilite del genere e di mancare di originalità è una possibilità concreta, che ormai è quasi una certezza.
Il biopic è ormai un genere abusato dagli studios hollywoodiani che ne hanno fatto uno dei principali veicoli per la stagione dei premi. In tempi recenti perciò approcciarsi ad un film biografico è un po’ un azzardo perché il rischio di fossilizzarsi nelle strutture prestabilite del genere e di mancare di originalità è una possibilità concreta, che ormai è quasi una certezza.
È un po’ il caso de La Battaglia dei Sessi, che pur essendo un film estremamente piacevole non è dotato di uno script particolarmente originale; la sceneggiatura del premio Oscar Simon Beaufoy (The Millionaire e 127 Ore), al contrario, fa largo uso di clichè e strutture narrative ricorrenti del genere. Pensato come un dramedy per il grande pubblico, il film è ricco di sana ironia ma anche di momenti drammatici un po’ più didascalici e decisamente meno godibili. Ma la Battaglia dei Sessi segna anche il ritorno alla regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris, al timone undici anni fa del fenomeno indie Little Miss Sunshine e cinque anni fa del meno fortunato Ruby Sparks, ed è proprio il loro stile a rendere il film davvero interessante; Dayton e Faris infatti riescono a creare un mix perfetto tra film commerciale ed animo indipendente, prendendo una sceneggiatura realizzata con lo stampino ed infondendole la dolcezza ed i toni (ed i colori) caldi ed avvolgenti di cui era intriso Little Miss Sunshine.
In ultima analisi, pur non brillando in quanto ad originalità, La Battaglia dei Sessi è un film molto gradevole sorretto egregiamente da due registi vivaci e da una ricostruzione storica ineccepibile e coinvolgente (il cui culmine è rappresentato dallo storico incontro King-Riggs), che trova un limite piuttosto evidente nel suo essere un film ostentatamente biografico e femminista e nella sottotrama LGBT, che, oltre ad retorica e scontata, aggiunge molto poco alla storia in quanto non ha il tempo di essere adeguatamente sviluppata. Ma il film dei coniugi Dayton-Faris è particolarmente apprezzabile soprattutto per le strepitose performance dei due protagonisti: Emma Stone torna in gran forma un anno dopo l’Oscar vinto con La La Land, la sua interpretazione è intima e totalizzante, a tratti ci si dimentica che dietro gli occhiali ingombranti e lo sguardo determinato ma al contempo timido della King si nasconda una forza della natura come lei; mentre Steve Carell con la sua performance divertente e misurata conferma ancora una volta di essere un interprete versatile e carismatico. Fosse stato un anno diverso li avremmo ritrovati entrambi agli Oscar, quest’anno chissà, forse li vedremo trionfare ai Golden Globe.
VOTO: 7/10