Di Simone Fabriziani
Scrittore sopraffino ed inimitabile nella psicologia dell’universo femminile e nelle inquietudini e nevrosi dell’uomo occidentale contemporaneo, Woody Allen affronta il secondo decennio del nuovo millennio però con rinomata svogliatezza, anche sul grande schermo; difficile riuscire a perdonare le vacuità di concetto di titoli come To Rome with Love, Magic in the Moonlight e Cafè Society, pur mettendo da parte gli ottimi seppur sempre più rari esiti di Midnight in Paris e Blue Jasmine. L’ultima fatica di Allen non sfugge tristemente all’ultimo destino.
Coney Island, anni Cinquanta. Un bagnino (Justin Timberlake) ripercorre una storia che potrebbe essere filtrata dalla sua fervida immaginazione: una coppia, formata dal giostraio di mezza età Humpty (James Belushi) e dalla moglie Ginny, un’ex attrice che lavora come cameriera (Kate Winslet), vive sul lungomare. La loro esistenza scorre tra alti e bassi fino al giorno in cui i due ricevono la visita dell’alienata figlia Carolina (Juno Temple), in fuga dai gangster, con tutte le conseguenze del caso.
Con un gusto tutto particolare per la messa in scena squisitamente teatrale, La ruota delle meraviglie si districa senza guizzi degni di nota tra le vite insoddisfatte che si intersecano pericolosamente al’ombra della wonder wheel di Coney Island, luogo di svago e divertimento della New York degli anni ’50 all’inizio del suo inevitabile declino come punto di attrazione popolare.
A cavallo tra finzione letteraria e tradizione teatrale, le vicende di Ginny e della sua disgraziata famiglia sono fastidiosamente filtrare dall’onniscenza del bagnino Mickey, aspirante scrittore dalla fervida immaginazione invischiato in una relazione a tre che porterà scompiglio nella vita di tutti gli interessati; per quanto la rottura della quarta parete da parte del miscast Justin Timberlake sia l’elemento meno ispirato dell’ultimo Allen, a risollevare la baracca dall’ennesima storia di disillusione e speranza di una donna insoddisfatta dalla sua misera vita è il trio di protagonisti capitanato da una Kate Winslet gigionesca perfettamente calata nell’universo femminile nevrotico del regista newyorkese, ma che alla fine risulta più una copia sbiadita del disfacimento psicologico che aveva già interessato, con ben altri risultati di scrittura, la Cate Blanchett di “Blue Jasmine”.
Un omaggio personale al teatro americano della tradizione di Tennessee Williams e Eugene O’Neal che ha però il sapore stantio di un cineasta la cui straordinaria acutezza e causticità si è perduta nell’incessante e vitale necessità dello stesso Allen di realizzare almeno una pellicola all’anno, unica interfaccia con la quale, a detta dello stesso autore più e più volte, riesce a comunicare con il mondo. Ormai una questione più di odi et amo che granitica presa di posizione verso l’ultimo cinema di Allen.
VOTO: 6/10