Di Daniele Ambrosini
Erano ben undici anni che un film italiano non veniva scelto per inaugurare la Mostra del Cinema di Venezia. Lacci di Daniele Luchetti, presentato fuori concorso, è il primo film a ricevere questo onore da Baaria di Giuseppe Tornatore, che aprì la rassegna nel 2009. E bisogna dire che quello di essere il primo film di un festival come questo, in un momento storico come il nostro, è un onore ma anche un onere non da poco.
Lacci racconta la storia del travagliato matrimonio di Aldo e Vanda, una coppia che entra in crisi negli anni ’80, quando lui si innamora di un’altra donna, Lidia, e decide di lasciare la sua vita a Napoli per iniziarne una nuova a Roma, per poi tornare sui suoi passi, un po’ alla volta. Passati trent’anni Aldo e Vanda sono ancora sposati, ma il loro matrimonio non è diventato meno burrascoso o più felice. Il tempo che avrebbe dovuto rimarginare certe ferite ha solo acuito il rimorso e il rancore, ormai pronti ad esplodere da un momento all’altro.
Tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, Lacci è un film intrigante, almeno nella prima parte, che però, pur essendo ben costruito e portando avanti un racconto funzionale e coeso, sembra essere solamente un esercizio, una mera operazione intellettuale, dove la componente emotiva sembra artefatta, costruita a tavolino.
Già nelle primissime scene apprendiamo dell’infedeltà di Aldo e dei dubbi che questa genera in lui e da lì il film inizia la sua estenuante corsa. Nei quindici minuti successivi si accumulano una serie di scene apparentemente slegate tra loro che però sembrano coprire un arco temporale incredibilmente vasto, che hanno lo scopo di mostrare la prossima e l’inesorabile fine del rapporto tra i due protagonisti, che però non arriva, o meglio, non subito. Poco dopo seguono una serie di sbalzi temporali che ci mostrano i due protagonisti e i loro figli in periodi successivi, fino ad arrivare al presente, dove la coppia si è ricongiunta.
Proprio come nel precedente Momenti di trascurabile felicità, Luchetti trova un espediente per saltellare nel tempo e nella memoria e ricostruire un travagliato rapporto di coppia. E se il film con Pif peccava di superbia, e aveva una premessa più debole, questo Lacci è semplicemente macchinoso. I salti temporali sono costruiti ad hoc e funzionano abbastanza bene, la prima parte è all’apparenza più frammentaria della seconda, ma a livello strutturale il film regge, ma solo questo. Alla lunga il trucco diventa evidente e l’interesse per la felicità di una coppia non solo disfunzionale, ma con la quale è difficile entrare in empatia, si va affievolendo.
Ad interpretare Aldo e Vanda ci sono Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher, in una versione più giovane, e poi Silvio Orlando e Laura Morante, nella versione “trent’anni dopo”. I quattro fanno un buon lavoro e si prendono abbastanza, avendo tutti lo stesso piglio del proprio corrispettivo, ma essenzialmente interpretano tutti una variante di sé stessi. Li abbiamo visti tutti più in forma altrove. A deludere maggiormente sono Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini che interpretano i figli della coppia, ormai cresciuti, nell’ultima parte del film.
Proprio ai figli, infatti, è dedicata una chiusura poco convincente e molto forzata, che stona con il tono generale del film. Dopo un’ora e passa di film montato a ritmi forsennati, tra salti temporali e stacchi continui, gli ultimi venti minuti sembrano una pièce teatrale, con i figli, rimasti fino a quel momento sullo sfondo e quindi non adeguatamente sviluppati, improvvisamente diventati protagonisti assoluti della scena. Tanta, troppa teatralità, per una chiusura cervellotica, ma dall’impatto emotivo piuttosto ridotto. Perché, in fondo, Lacci è questo, una buona operazione intellettuale, che, però, manca di sincerità emotiva.
VOTO: 5/10