Di Daniele Ambrosini
Tornato a Cannes quest’anno dopo la Palma d’Oro ricevuta nel 2014 con Il regno d’inverno – Winter Sleep, l’acclamato regista turco Nuri Bilge Ceylan non è riuscito a replicare il successo della sua pellicola precedente, uscendo dalla Croisette a mani vuote, ma non sconfitto; infatti L’albero dei frutti selvatici è stato uno dei film più apprezzati dalla critica durante l’ultima edizione del festival ed è stato selezionato per competere per l’Oscar al miglior film straniero.
Protagonista dell’ultimo lavoro di Ceylan è Sinan, un giovane appena laureato che dalla città dove ha compiuto gli studi torna nel suo paesino. Sinan aspira a diventare uno scrittore e così una volta terminati gli studi si mette alla ricerca dei fondi per pubblicare il suo primo libro, operazione che si rivelerà alquanto difficoltosa in una regione, quella del sito archeologico di Troia, che vive essenzialmente di turismo e nella quale gli unici scritti che trovano sovvenzioni (anche di poco conto) sono quelli di carattere informativo. Nel frattempo partecipa anche al concorso statale per diventare insegnante, una delle poche prospettive lavorative concrete per un laureato in lettere, senza però impegnarsi troppo; le possibilità di essere spediti in una zona di guerra una volta passato il concorso sono molto alte e Sinan vorrebbe diventare uno scrittore anche per avere una vita diversa da quella di suo padre, un insegnante ormai prossimo alla pensione con la passione per il gioco d’azzardo che sta lentamente rovinando la sua famiglia. Quello del ritorno a casa di Sinan è, insomma, un momento spartiacque nella sua vita, un momento per guardare al futuro e per ripensare al suo passato.
Ceylan realizza un film-fiume della durata di oltre tre ore che sfrutta la sua linea narrativa per parlare un po’ di tutto, infatti il regista è ugualmente interessato alla trama principale quanto alle lunghissime digressioni disseminate in maniera equa nel corso di tutta la pellicola. Ad intervallare un film che per lo più è costruito su lunghi silenzi e sul tema dell’incompatibilità e dell’incomunicabilità ci sono dei lunghi dialoghi via via sempre più incisivi, che spesso deviano dalla storia di Sinan e diventano occasione per Ceylan di approfondire temi legati all’attualità e alla realtà turca nella quale il film è incredibilmente radicato. Lo stacco tra le diverse parti che compongono il film si sente, ma non intacca minimamente la riuscita di un’opera che è volutamente stratificata e tutto sommato strutturalmente ben costruita (proprio sull’alternanza di scene narrativamente significative e digressioni dialogate), oltre che stilisticamente molto variegata.
La vicenda narrata nel film ha tutta la gravitas di un dramma familiare e sociale, dove le vicende personali si mescolano a istanze politiche che aprono il film ad una lettura più ampia, ma Ceylan decide di impostare L’albero dei frutti selvatici su un tono leggero, che finisce per sfiorare la commedia in numerose occasioni, per non appesantire inutilmente un film che con questo pizzico di spensieratezza risulta decisamente più incisivo. Una spensieratezza che è propria del protagonista e che Ceylan sembra intenzionato a trasporre e a fare propria in numerose occasioni, finendo però per scivolare in qualche ingenuità di troppo. L’albero dei frutti selvaggi è un film sì spensierato come Sinan, ma anche sfacciato come Sinan, un film estremamente ambizioso (che proprio nella sua struttura digressiva rappresenta un parallelo con la struttura del libro scritto dal protagonista), i cui obiettivi non sempre vengono raggiunti al meglio. Ci troviamo di fronte ad un film imperfetto, il cui impianto quasi letterario permette di ostentare un illusorio controllo narrativo che in realtà nasconde un’esuberanza stilistica non sempre tenuta adeguatamente sotto controllo, infatti a volte si ha come la sensazione che Ceylan si faccia trasportare così tanto dal suo racconto da non tenere ben salde le redini dell’intera operazione. Eppure L’albero dei frutti selvatici è un film con un’anima, un film profondamente sentito dal suo autore, lo si avverte costantemente nel corso della pellicola, e alla luce di questo (quasi) tutti i difetti passano in secondo piano.
VOTO: 7,5/10