Loveless – La recensione

Seguici anche su:
Pin Share

 Di Daniele Ambrosini

A distanza di tre anni dall’acclamato Leviathan, Andrej Zvjagincev torna a Cannes con Loveless, un’altra pellicola profondamente riuscita con la quale il regista russo conquista il Premio della Giuria.
Loveless è nuovamente un trattato politico sulla Russia contemporanea ma è anche racconto trasversale sull’amore e sulla sua assenza, sui rapporti umani e sulla loro degenerazione; a questi temi  Zvjagincev rivolge il suo sguardo velatamente cinico, realizzando un film sempre al limite della metafora con un intento critico palese ma mai eccessivamente calcato.

Zhenya e Boris sono una coppia che non si è mai amata, con un divorzio da ufficializzare e un figlio di cui prendersi cura. Il piccolo Alyosha sente di non essere il benvenuto nella sua famiglia, avverte di essere di troppo, Alyosha non è un figlio, è solo un peso che continua a tenere legati Zhenya e Boris e di cui, tra l’altro, nessuno dei due ha voglia di farsi carico. Dopo un’accesa discussione origliata da dietro una porta, Alyosha decide di andarsene via di casa, semplicemente di sparire e non tornare mai più. Questa, a grandi linee, è la trama di Loveless che, prima di giungere al punto di svolta rappresentato dalla comparsa di Alyosha, si dedica una lunga introduzione per raccontare i propri protagonisti, Zhenya e Boris, personaggi alienati e decadenti in cerca di una felicità che non sono in grado di conquistare.
Ad un primo sguardo Loveless è un film d’autore di come se ne sono visti tanti: ermetico, ordinato e pulito. Ma Zvjagincev gira con un controllo di scena praticamente totale (ogni inquadratura sembra studiata al millimetro) ed un’eleganza tale che è impossibile non restare ammaliati dalla sua opera. Ad un lavoro di regia curato e permeante si aggiunge una sceneggiatura di una precisione quasi chirurgica, che sa esattamente dove vuole andare a parare e che raggiunge picchi di lirismo, di umanità e di tensione emotiva molto alti, pur restando sempre molto calibrata. Tanta cura dei particolari sia registicamente che in fase di scrittura contribuisce a creare un mood cupo e teso, per tutto il film si respira un’aria di profonda tristezza e di grande repressione emotiva, e a questo contribuisce enormemente l’ambientazione del film; la Russia di Zvjagincev è decadente ed abbandonata, solitaria e spietata e di riflesso lo sono anche i suoi personaggi che si muovono come pedine inconsapevoli di essere manipolate dal malsano ambiente in cui vivono. Importante per la caratterizzazione della Russia è la collocazione temporale del racconto che si svolge per la maggior parte nel 2012, informazione all’inizio sottaciuta allo spettatore che può comunque coglierla da elementi come i riferimenti alle elezioni Obama-Romney, l’iPhone 4 con il quale Zhenya vive praticamente in simbiosi (fondamentale per descrivere l’alienazione del personaggio) e soprattutto la menzione della fine del mondo predetta dal calendario Maya. La fine del mondo non arriva fisicamente ma si ha quasi l’impressione che forse sarebbe stato meglio se il mondo fosse finito davvero; nel finale il film si sposta avanti di circa tre anni, la situazione politica è degenerata e la Russia e l’Ucraina sono sul piede di guerra mentre i personaggi sono ancora chiusi nel loro microcosmo sepolti dal dolore di una vita vissuta senza amore, e la fine del mondo, ancora una volta, non sembra così lontana ed ancora una volta forse sarebbe il danno minore, per i protagonisti così come per la Russia. Come prevedibile, non c’è alcuna redenzione.
Loveless è un film dotato di una grande forza espressiva, che non ha bisogno di calcare la mano ma che, al contrario, riesce a parlare al suo pubblico senza eccedere nei toni, grazie ad uno stile misurato. Paga forse lo scotto di muoversi nel campo di un cinema d’autore ormai noto al pubblico, un cinema semplice ed essenziale sempre di moda nell’ambito festivaliero, qui arricchito da una regia solo apparentemente scarna ma che in realtà gioca sulla semplicità per cercare l’eleganza formale; il fatto che sia identificabile in una tipologia di cinema ben precisa però non riduce la portata dell’opera, che resta complessa e stratificata e soprattutto riesce a veicolare un messaggio tramite una storia che non è solo mezzo per raccontare una grande metafora ma è in primo luogo una storia di personaggi profondamente umani e ben caratterizzati (portati in vita dalle buone interpretazioni di Aleksey Rozin e di Maryana Spivak). Se qualche anno fa Cannes ha avvertito l’esigenza di dover saldare il suo debito con Nuri Bilge Ceylan, al prossimo giro potrebbe toccare a Andrej Zvjagincev, che con Loveless ha sfiorato la Palma d’Oro, e probabilmente l’avrebbe anche meritata.

VOTO: 8/10


Pubblicato

in

da