Di Simone Fabriziani
Adattamento cinematografico dell’omonima piéce teatrale di August Wilson (Barriere) che gli aveva regalato un Tony Award, il regista di Broadway George C. Wolfe torna dietro la macchina da presa (aveva già diretto Come un uragano e Qualcosa di buono) con una trasposizione cinematografica che difficilmente si allontana dalla sua fonte originaria. Avvolto da una fotografia cangiante e fumosa, da scenografie claustrofobiche perfette per una narrazione da palcoscenico, Ma Rainey’s Black Bottom non si prende nemmeno la briga di ampliare i confini del teatro e delle sue illusioni narrative per delineare la backstory dei suoi protagonisti.
L’uso del flashback sembra essere bandito, i pensieri dei personaggi, così come il loro passato e presente, vengono espressi solo attraverso la raffica energetica di scambi di dialogo affilati e a tratti estenuanti, qui tutto sembra ricondurre ed omaggiare in maniera quasi sacrale l’illusione dell’opera teatrale e delle sue unità di spazio, tempo e luogo di matrice aristotelica. Uno spazio ristretto che serve a Wolfe per raccontare l’esperienza della comunità afro-americana e il ruolo che essa ha assunto nella società statunitense.
Un ruolo che si muove parallelamente su due linee che si incontrano e poi scontrano; da una parte l’altezzosa e magniloquente Ma Rainey, la Madre del Blues, dall’altra il trombettista dal passato traumatico Levee, pronto a sconvolgere la sessione di registrazione per far valere la sua arte e per formare una band tutta sua, pronta a rivoluzionare la musica afro-americana. A far scontrare questi due asset paralleli, la percezione dei bianchi nei confronti dell’arte “di colore”; Ma Rainey e Levee sono sono due strumenti per vendere un prodotto e per far girare la loro economia, oggetti preziosi e remunerativi pronti ad essere gettati nella spazzatura una volta che hanno servito il loro scopo.
Per la famosa cantante è la voce, per il giovane musicista con il sogno del riscatto è la tromba; per questo motivo il film di George C. Wolfe (ma prima ancora la piéce di August Wilson) è più interessante se analizzato come arguta riflessione sul ruolo dell’arte afro-americana e la sua importanza nella società dei consumi americana, del passato e del presente. Una riflessione solo apparentemente schiacciata dai meccanismi di una trasposizione volutamente troppo teatrale, che permette di dare libero sfogo ad un cast affiatato enfatizzato dalla presenza ingombrante di Viola Davis (ormai star affermata del cinema contemporaneo e nuova diva della comunità artistica afro-americana, come lo era Ma Rainey) e dall’ultima interpretazione sul grande schermo di Chadwick Boseman, qui più convincente che mai.
VOTO: 7/10