Di Massimo Vozza
Il primo film hollywoodiano interamente scritto, finanziato e realizzato (precisamente tra giugno e luglio in California) durante il COVID-19 è Malcolm & Marie, dramma romantico in bianco e nero di Sam Levinson (il creatore dell’acclamata serie HBO Euphoria), ispirato a un’esperienza da lui vissuta in prima persona con sua moglie, la produttrice Ashely Levinson.
La trama è semplice: Malcolm e la sua fidanzata Marie tornano a casa dalla premiere di un film realizzato dall’uomo della coppia e, in attesa del responso della critica, cominciano a rivelarsi dei fatti che mettono in discussione il loro rapporto; diversamente, a non essere semplici sono i contenuti tematici dell’opera: la complessa dinamica di coppia è certamente il punto focale, la quale include riflessioni sul ruolo del potere all’interno di una relazione e su chi lo detiene, sulle differenze tra uomo e donna, tra ventenni (lei) e quasi quarantenni (lui), ma da questa si arriva a toccare altre tematiche solo parzialmente legate ai due personaggi, come la dipendenza e, soprattutto, il cinema, tra elementi meta-cinematografici e autoreferenziali.
Nello specifico, le osservazioni di Malcolm sulla critica cinematografica sono legate a doppio filo con la questione del razzismo, altro tema in un certo senso presente nel film ma in un modo inedito e critico sul quale vale la pena soffermarsi: Levinson crea uno straordinario e ricercato paradosso nel porre il personaggio del cineasta in aperta polemica con i recensori (in primis caucasici) che non riescono ad analizzare un film nel quale vi sono protagonisti afroamericani senza metterci di mezzo il razzismo (o anche, ma meno centrale, il non riuscire a tirare in ballo la misoginia se un regista uomo gira una scena di nudo di un personaggio donna).
L’importanza del cinema si fa sentire però in particolare sul piano della realizzazione estetica: nonostante Levinson ci narri questo pezzo di relazione in tempo reale e all’interno di un’unica location (l’abitazione della coppia e il terreno a questa circostante), dividendo il percorso della coppia in atti ben delineati, durante i quali dialoghi serrati e i lunghi monologhi ne fanno da padrone (senza mai risultare didascalici o forzati), le qualità proprie del cinema si fanno sentire prepotentemente, non dando mai così l’illusione di assistere a una sorta di opera teatrale filmata, nonostante teoricamente ne avrebbe potuto dare l’impressione; si tratta di movimenti di camera ricercati in alcune scene alternati a inquadrature fisse in altre, di una varietà di piani di ripresa, della composizione delle inquadrature che assume anche un forte significato quando racchiude entrambi i personaggi, del ruolo della musica extradiegetica negli intermezzi tra gli atti, della fotografia in generale, con il suo netto bianco e nero.
Unici e straordinari interpreti, Zendaya e John David Washington bucano letteralmente lo schermo, incarnando perfettamente l’esasperato realismo dei corrispettivi personaggi, in una gara di bravura che li spinge ad alzare la posta, scena dopo scena.
Malcolm & Marie insomma è l’esempio perfetto non solo di un cinema figlio dell’isolamento conseguente all’attuale momento storico ma anche di opera propria di una generazione di cineasti trentenni formatosi nel panorama indipendente che, con naturalezza e continuamente, riescono a passare dal piccolo a grande schermo, dalla sala a Netflix, da produzioni a basso budget a quelle ad alto, da attori e attrici emergenti a veterani, senza mai negare loro stessi.
VOTO: 8/10
da