Mank – La recensione del nuovo film Netflix diretto da David Fincher

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Di Simone Fabriziani

La Hollywood degli anni Trenta viene raccontata attraverso lo sguardo di Herman J, Mankiewicz. Critico sociale pungente e sceneggiatore alcolizzato, Mankiewicz è alle prese con l’ultimazione della sceneggiatura di Quarto potere per Orson Welles. Il nuovo, ambizioso progetto cinematografico diretto dal candidato all’Oscar David Fincher debutta su Netflix a partire dal 4 dicembre, ed è il film statunitense con la miglior scrittura dell’anno.

La triste parabola discendente dello sceneggiatore della Hollywood dei tempi d’oro Herman J. Mankiewicz (uno strepitoso e gigioneggiante Gary Oldman) non è soltanto un prodigio di tecnica e maestranze cinematografiche, ma è una lettera d’amore al vero protagonista del progetto Mank: il giornalista e scrittore Jack Fincher, padre del regista David e autore della sceneggiatura di questo lungometraggio, ultimata nei primi anni ’90 ma mai portata sul grande schermo dal figlio; fino ad oggi.

Perché prima di essere caustico film biografico di precisione chirurgica di regia e scrittura, Mank è soprattutto invettiva autobiografica di papà Jack, che introietta la sua triste parabola di aspirante sceneggiatore cinematografico ad Hollywood: non solo il progetto sul rise and fall di Herman J. Mankiewicz (co-autore della sceneggiatura del capolavoro Quarto Potere di Orson Welles) è specchio di un talento che non ce la fa a sfondare in un mondo cinico e pre-fabbricato come le imponenti scenografie dei film che realizza, ma è un lucido e amaro ritratto di un sistema economico-artistico che, come era una volta, è ancora oggi.

Perché non è un caso che l’assetto visuale di Mank, pur impressionante nella sua messa in piedi risulti artificioso all’occhio dello spettatore; tutto sembra allestito per creare un perfetto e lezioso doppelganger della Hollywood degli anni dorati, un simulacro vuoto e asettico (rigorosamente in glorioso bianco e nero fotografato da Erik Messerschmidt) che inveisce contro il sistema produttivo della cinematografia statunitense di ieri e di oggi più che celebrarlo. Del resto, David Fincher ha da sempre avuto uno due conti in sospeso con Hollywood, lui cineasta autoriale e chirurgo estenuante dell’immagine, dello sguardo, dell’azione e narrazione che non è mai sceso a compromessi con le necessità delle major, nemmeno per opere più sentimentali e formali come appunto Mank o il suo fluviale Il curioso caso di Benjamin Button del 2008.

Inutile tacciare il nuovo film di David Fincher di eccessiva freddezza e distacco partecipativo ed emotivo, al regista interessa poco soddisfare il palato basico dello spettatore mediano; dietro alla straordinaria patina di capolavoro tecnico del film (fotografia, scenografia, costumi e montaggio su tutti li rivedremo agli Oscar), c’è un bisogno più atavico ed intimo di quanto non appaia alla prima, rutilante visione: quello di ricordare con sguardo amaro e cinico che Hollywood non è mai cambiata veramente, come l’America che la nutre e la tiene viva.

VOTO: 8/10


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