Maria Maddalena – La recensione del film biblico di Garth Davis con Rooney Mara e Joaquin Phoenix

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Di Daniele Ambrosini

Dopo il folgorante esordio con il successo internazionale di Lion – La strada verso casa, Gath Davis era atteso al varco con il suo secondo, ambizioso film, quel Maria Maddalena fino a poco tempo fa rimasto in un limbo distributivo per via della vicenda Weinstein e per la poca fiducia che la compagnia del mogul di Hollywood aveva dato al film durante la stagione dei premi. Infinitamente rimandato e poi ceduto ad una nuova casa di distribuzione, l’atteso quanto temuto (ed atipico) biopic a sfondo biblico con protagonisti Rooney Mara e Joaquin Phoenix arriva finalmente in sala e l’Italia sarà il primo territorio al mondo in cui verrà rilasciato, a partire da domani.

Dal 3 giugno 2016 la Congregazione per il culto divino, per espresso desiderio di Papa Francesco, ha  elevato la celebrazione di Maria Maddalena al grado di festa liturgica; si tratta dell’ultimo atto e del riconoscimento finale di un revisionismo che nel corso dei secoli ha liberato la figura della Maddalena da un ingombrante serie di fraintendimenti ed “aggiustamenti” storici. Infatti molti sono ancora convinti che Maria di Magdala fosse semplicemente una prostituta redenta e non l’Apostola al pari degli Apostoli come ad oggi è riconosciuta dalla Chiesa Cattolica. Garth Davis nel suo film asseconda questa nuova e più corretta visione del personaggio, creando per lei una storia di base plausibile laddove le informazioni sono mancanti e poco chiare e ricostruendo intorno a lei una storia ben più nota, quella di Gesù di Nazareth.
Nel film assistiamo ad una breve introduzione dove ci è possibile vedere Maria (Rooney Mara) all’interno del suo contesto familiare, in una certa misura avverso a lei che è una donna forte con uno spiccato senso del dovere e dell’altruismo che la portano a rifiutare di prendere marito, decisione osteggiata dalla famiglia. L’incontro con Gesù (Joaquin Phoenix) avviene proprio grazie ai parenti che chiedono al Rabbì (il maestro, titolo con cui tutti si riferiscono a Cristo nel film) di liberarla dallo spirito demoniaco che la porta ad andare contro il senso comune. L’ingresso in scena di Gesù avviene quando ormai la sua attività di proselitismo è ben avviata, quando sempre più persone hanno già sentito il suo messaggio ed hanno avuto modo di trarne se non una nuova fede, quantomeno delle suggestioni. Perché se c’è un aspetto positivo della rappresentazione di Gesù in questo film è proprio che resta una figura misteriosa, mai del tutto compresa dai suoi contemporanei. La Maddalena decide di abbandonare la sua famiglia per seguirlo nel suo viaggio lungo la Palestina, nel quale vengono riproposti alcuni degli episodi più famosi della vita del profeta, dai miracoli fino alla crocifissione e alla successiva resurrezione, ma sempre secondo la prospettiva del personaggio di Maria di Magdala. 

Garth Davis gira con incredibile delicatezza, prendendosi i suoi tempi. Coadiuvato da una sceneggiatura funzionale che ha lasciato al regista ampio margine di movimento e da una affascinante fotografia che utilizza quasi unicamente luci naturali per rendere al meglio non solo il collegamento ideologico con il ruolo della luce nella religione cristiana, ma anche il collocamento spazio-temporale che non risulta mai artificioso, infatti difficilmente si ha la sensazione di vedere qualcosa di ricostruito, tutto sembra molto naturale. Nota di merito per il casting, che ha evitato l’insidioso rischio del white washing affidando ruoli chiave ad attori di origine araba e a Chiwetel Ejiofor il ruolo di San Pietro, l’unica vera eccezione è Rooney Mara, il cui candore buca lo schermo e sottolinea l’innocenza del personaggio.
Il maggiore pregio di Maria Maddalena è quello di non essere un classico biopic e neanche un classico dramma biblico, ma di riuscire a fondere entrambi gli elementi in una pellicola che non ha paura di affrontare l’argomento religioso in maniera nuova, anche controversa volendo. Infatti si può dire che Maria Maddalena racconta la religiosità più che la religione, un sentimento primordiale che all’alba della fondazione del nuovo credo stava prendendo forma attraverso le parole di Gesù Cristo. Molti imputano al film di essere una rielaborazione in chiave femminista e politicamente corretta di una storia universalmente conosciuta in una diversa variante, che però è quella errata della storia, ormai nemmeno più supportata dalla Chiesa, perciò sotto questo punto di vista il film di Davis compie un’operazione di riabilitazione doverosa (e non politicizzata) che però non costituisce il vero nucleo concettuale del film. Infatti il maggior pregio e fulcro dell’intera operazione è la reinterpretazione della mitologia cristiana: nel film vengono posti indirettamente molti interrogativi, per esempio ci si chiede se è possibile che il messaggio di Cristo sia stato corrotto fin dalla prima generazione di discepoli, si ipotizzano realtà diverse da quelle comunemente accettate – sulla scia della reinterpretazione avvenuta nella stessa Chiesa della figura protagonista del film -, a questo proposito è emblematica la spiegazione delle motivazioni che spingono al tradimento Giuda, che diventa personaggio più umano e fedele di quanto non sia mai stato in altre rappresentazioni. 
Maria Maddalena rielabora perciò la mitologia cristiana alla luce di una spiritualità antica che non è per forza la religione codificata come la conosciamo oggi ma è religiosità, e lo fa attraverso notevoli ed interessanti variazioni di trama, ma anche grazie ad una rappresentazione misteriosa di Gesù, che parla quasi unicamente secondo le scritture. A metà tra mitologia e figura politica, il Gesù di Davis non è mai in contrasto con la visione canonica per via, appunto, della sua sfuggevolezza, dovuta soprattutto al fatto che il film decide intelligentemente di raccontarlo solo indirettamente, attraverso gli occhi della sua attenta e devota discepola che ha modo di analizzare anche ciò che va oltre di lui, la sua eredità. Gli stessi miracoli ricordano quasi atti magici, sono come riti di religioni primordiali, che Davis descrive con una naturalezza tale da annullare il senso di meraviglia e da instaurare al suo posto una quella che in campo religioso (sullo schermo) è la fede ed in campo cinematografico (al di fuori dello schermo) è la sospensione dell’incredulità, un senso di abbandono al racconto che viene perciò assunto come vero. Per essere un film hollywoodiano, bistrattato dalla critica e dalla distribuzione internazionale, questa intelligenza e delicatezza in fase di rielaborazione della materia religiosa non è affatto poco, anzi. Ciò che resta alla fine della visione è un senso di pace, di compiutezza che sono l’ultimo tassello di un film che non può che dirsi riuscito, forse in parte limitato dall’appartenenza ad un genere ampiamente codificato.
Sul piano puramente registico Davis è fedele a sé stesso ed imposta il suo film più o meno sulle stesse coordinate emotive su cui aveva costruito il precedente Lion, confermandosi un regista fortemente sentimentale, cosa che ne costituisce il più grande pregio così come il maggiore difetto.

VOTO: 7,5/10