Midsommar – La recensione della favola horror di Ari Aster con Florence Pugh

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Di Daniele Ambrosini

Dopo aver stupito il mondo con la sua straordinaria opera prima, Hereditary, Ari Aster torna in sala con un film completamente diverso dal suo predecessore, un’opera originale, perversa, suggestiva ed estremamente affascinante, un vero e proprio cult istantaneo.

Protagonista del film è Florence Pugh nei panni di Dani, una ragazza sottomessa e bisognosa di attenzioni che ha una relazione stabile, ma non sempre felicissima, con Christian da ormai quattro anni. Un giorno la problematica e bipolare sorella di Dani decide di suicidarsi e di portare anche i genitori con lei, la tragedia travolge Dani che diventa completamente dipendente da Christian, che stava da tempo pensando di lasciarla e ora non può più farlo. Lui ha organizzato, senza avvisare Dani, un viaggio in Svezia insieme ai suoi amici per assistere ad una festività religiosa che si svolge una volta ogni novant’anni, nel villaggio dove è nato Pelle, uno dei suoi migliori amici, che si dice molto contento di poter condividere con loro questa esperienza unica. Quando la ragazza lo viene a sapere, Christian è costretto ad invitarla.
Il loro arrivo in Svezia è scandito da un lungo viaggio in auto, che ricalca, omaggia e rielabora la scena d’apertura di Shining, anche musicalmente. Ari Aster mette subito in chiaro che da quel momento in avanti siamo in quel territorio lì, narrativamente parlando, che non si torna più indietro. In questa scena c’è tutto il film, perché la sequenza non si limita ad essere una semplice citazione, ma anzi è dichiarazione d’intenti rispetto al patto che l’autore stringe con il suo pubblico, che da quel momento sa esattamente che tipo di film aspettarsi. L’idea del ribaltamento, operato in piena vista, senza nascondere nessun elemento, sulla quale è costruito il film è presentata visivamente fin da questo momento. Un ribaltamento lento, non forzato, che è l’arma attraverso la quale Aster gioca con la percezione dello spettatore, un po’ come in Hereditary aveva fatto attraverso una riuscita serie di colpi di scena, qui quasi del tutto assenti. Quello preparato da Aster è un lungo viaggio che conduce inesorabilmente verso il finale a cui la storia tende già dalle sue premesse, senza nessuna necessità di operare chissà quale grande scossone a livello narrativo; in Midsommar, infatti, tutto è giocato sulla percezione dello spettatore dei fatti, per loro natura ambigui. E tutto questo è, in nuce, presentato nella scena d’apertura vera e propria, in quel viaggio in auto che conduce alla misteriosa cittadina di Harga.

Volendo essere un po’ più poetici, poi, è molto bello che l’arrivo nel luogo della storia, quel posto che porta in sé tutte le future evoluzioni narrative, sia scandita da un omaggio così evidente, da un collegamento logico così automatico, perché il cinema di Ari Aster, per quanto originale e brillante, è chiaramente debitore nei confronti del lavoro di Stanley Kubrick. Gli eleganti movimenti di camera, calibrati al millimetro, la predilezione per i campi più ampi, per la dilatazione temporale, sono tutti elementi che in qualche modo rimandano a quel cinema. Lui e Yorgos Lanthimos sono i due registi contemporanei che, a livello tecnico e visivo, si sono avvicinati maggiormente e sono riusciti a rielaborare in maniera più efficace gli stilemi di un’immaginario artistico, quello kubrickiano, che fa parte del DNA e della formazione di ogni giovane autore, ponendosi in linea di continuità con lui, pur mantenendo la propria identità in quanto autori. In molti negli anni hanno guardato al lavoro di Kubrick, ma nessuno come loro è riuscito a comprenderne e farne così intimamente proprio lo spirito, pur mantenendo la propria originalità. Perché Ari Aster è ovviamente un regista diverso, così come lo è Lanthimos, ed è bello vedere come dallo stesso humus culturale fioriscano prodotti e autori così diversi, eppure così profondamente legati da un percorso formativo comune.
Il racconto messo su da Ari Aster è estremamente funzionale. Pur procedendo senza eccessivi stravolgimenti, il film risulta imprevedibile per via dello spirito goliardico con il quale il regista affronta l’intera operazione. Una massiccia dose di ironia, un certo gusto per l’assurdo ed il bizzarro rendono difficile capire dove il film voglia realmente andare a parare, dove la storia sia realmente diretta in termini sia narrativi che concettuali, il vero terreno di gioco dell’intera operazione. La struttura narrativa su cui il film poggia, poi, è estremamente solida e permette al regista di giocare con tutti questi elementi, di confondere le acque, di cambiare tono e registro, laddove necessario. I singoli elementi che compongono la trama vengono centellinati con meticolosa cura nel corso delle due ore e mezza di film (formato insolito per un horror), il pubblico ha accesso ad una singola informazione alla volta, assiste a scene costruite in maniera monolitica, tali da essere portatrici di una sola chiave di lettura narrativa. Si può immaginare la struttura di Midsommar come una catena, dove ogni singolo anello è sorretto da quello precedente ed è necessario a quello successivo, una struttura lineare, ma non eccessivamente schematica, perché Aster stesso è imprevedibile e si concede qualche trasgressione qua e là.

C’è un momento, che arriva più o meno dopo un’ora dall’inizio, dove il ritmo che aveva scandito l’alternarsi delle singole scene fino a quel momento viene consapevolmente tradito ed i tempi vengono dilatati, e di molto anche, nel quale è possibile notare il più grande di questi tradimenti ad una struttura che altrimenti risulterebbe troppo rigida e renderebbe l’intero prodotto prevedibile. Quella piccola pausa è necessaria per introdurre l’elemento di trama più significativo fino a quel momento, quello che, con largo anticipo, innesca l’inevitabile escalation finale. Da quel momento la direzione che il film prenderà diventa piuttosto evidente, ammesso che già non lo fosse in precedenza, e va bene così, perché Aster accompagna dolcemente lo spettatore verso lidi non del tutto inesplorati, per poi effettuare quel ribaltamento di cui prima, qui operato in campo concettuale anziché narrativo.

Nonostante la mente voli subito a Shining, un po’ per l’appartenenza al genere horror, un po’ per l’evidente citazione di cui sopra, Midsommar, volendo tornare a ragionare sul rapporto con Kubrick, ha in realtà molti più punti di collegamento con Eyes Wide Shut. Primo tra tutti l’alienazione dal contesto quotidiano e l’immersione in un mondo straordinario, al limite del reale, per raccontare una storia di relazione, per raccontare la storia di una coppia sull’orlo della separazione. Quello dell’horror folkloristico, per stessa ammissione del regista, è una maschera, un vestito sotto il quale si nasconde la reale natura del film. Eppure ciò non rende Aster meno interessato a lavorare sul genere, anzi. Quella dell’horror è la cornice nella quale si muove l’intera storia, il genere diventa un terreno fertile nel quale lavorare con i sottotesti e nel quale sperimentare, giocare con le aspettative del pubblico, talvolta ingannarlo, e prendersi qualche rischio. Il più grosso dei quali è sicuramente quello di rinunciare a molti degli elementi caratterizzanti di un film dell’orrore, a partire dalle scene più propriamente spaventose, perché no, Midsommar non fa paura, ma non doveva farne per funzionare.

L’idea che un film horror per esser definito tale debba spaventare lo spettatore è non solo desueta, ma anche errata. Un buon film horror è quello che sfrutta tutta una gamma di sentimenti negativi – quali la paura, l’angoscia, l’insicurezza – propri dei personaggi come motore narrativo della storia, nel tentativo di smuovere qualcosa all’interno dello spettatore, di spingerlo a riflettere, e magari a fare i conti con quelle sensazioni, non per forza di farlo saltare dalla poltrona. Concettualmente un horror può lavorare solamente sulla sensazione della paura, nel tentativo di traslarla dai personaggi allo spettatore, oppure può decidere di utilizzare una differente emozione appartenente a quella gamma emotiva nel tentativo di costruire un racconto che sia in sé portatore di un dato sentimento, che può anche differire da ciò che provano i personaggi sullo schermo. Midsommar è questo tipo di horror: non punta mai a spaventare lo spettatore, ma piuttosto racconta una storia che ha alla base un elemento inquietante, evidente fin da subito, e crea un’atmosfera tesa, che a lungo andare lavora sullo spettatore in maniera efficace, disturbandolo (più o meno) inconsciamente, e che sfrutta i toni e le atmosfere della favola, che, per contrasto, creano un effetto straniante che ne definisce il mood generale. Questi sono gli horror migliori, quelli più originali, quelli che riflettono sul genere e le sue potenzialità e sono in grado di sovvertirne cliché e consuetudini, creando qualcosa di diverso, unico ed originale.

Ottimi gli interpreti protagonisti, a partire dalla straordinaria Florence Pugh, astro nascente di Hollywood che all’ennesima performance di alto livello è diventato impossibile ignorare. La sua è una prova controllata, di grande effetto. E quell’ultimo sguardo, sul finale, è destinato a restare impresso nella memoria degli spettatori per molto, molto tempo. Ad affiancarla c’è Jack Reynor, nei panni del prototipo del cattivo fidanzato, William Jackson Harper, in quelli di un antropologo laurendo fortemente interessato alle tradizioni di Harga, Will Poulter, vera e propria spalla comica del gruppo, e Vilhelm Blomgren, interprete del solare ed amichevole Pelle. Tutti loro hanno ruoli più contenuti rispetto a quello della Pugh, ma riescono a brillare in numerose occasioni, soprattutto quando sono in gruppo, situazione nella quale la vivace scrittura di Aster permette loro di essere naturalissimi.

E su di lui, la mente dietro a questa splendida esperienza cinematografica, Ari Aster, regista emergente dallo spirito ribelle e lo stile elegante, spesso tacciato di essere presuntuoso, non possiamo che dire: è nata una stella. Se Hereditary era il colpo di fulmine, Midsommar è la conferma. Aster è destinato a fare grandi cose, qualunque sia il genere che deciderà di affrontare in seguito; i corti realizzati prima di Hereditary, ognuno diversissimo dall’altro per genere, approccio e tono, ci dimostrano che ci troviamo davanti ad un autore incredibilmente versatile e malleabile, in grado di affrontare diverse tipologie di racconto senza compromettere il suo tocco, senza farsi sopraffare dalla storia o dal genere, un autore a tutto tondo con uno stile preciso ed una capacità di controllo sulla materia narrativa invidiabile. Dopo questa piacevolissima conferma del suo talento, possiamo dire di trovarci di fronte ad uno degli autori americani più interessanti di questa generazione e non possiamo che essere molto fiduciosi per il suo futuro, qualunque genere decida di affrontare. Nell’attesa, assicuratevi di andare a vedere Midsommar in sala, dove merita di essere visto.

VOTO: 9/10


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