Di Daniele Ambrosini
C’è un momento, che arriva più o meno dopo un’ora dall’inizio, dove il ritmo che aveva scandito l’alternarsi delle singole scene fino a quel momento viene consapevolmente tradito ed i tempi vengono dilatati, e di molto anche, nel quale è possibile notare il più grande di questi tradimenti ad una struttura che altrimenti risulterebbe troppo rigida e renderebbe l’intero prodotto prevedibile. Quella piccola pausa è necessaria per introdurre l’elemento di trama più significativo fino a quel momento, quello che, con largo anticipo, innesca l’inevitabile escalation finale. Da quel momento la direzione che il film prenderà diventa piuttosto evidente, ammesso che già non lo fosse in precedenza, e va bene così, perché Aster accompagna dolcemente lo spettatore verso lidi non del tutto inesplorati, per poi effettuare quel ribaltamento di cui prima, qui operato in campo concettuale anziché narrativo.
Nonostante la mente voli subito a Shining, un po’ per l’appartenenza al genere horror, un po’ per l’evidente citazione di cui sopra, Midsommar, volendo tornare a ragionare sul rapporto con Kubrick, ha in realtà molti più punti di collegamento con Eyes Wide Shut. Primo tra tutti l’alienazione dal contesto quotidiano e l’immersione in un mondo straordinario, al limite del reale, per raccontare una storia di relazione, per raccontare la storia di una coppia sull’orlo della separazione. Quello dell’horror folkloristico, per stessa ammissione del regista, è una maschera, un vestito sotto il quale si nasconde la reale natura del film. Eppure ciò non rende Aster meno interessato a lavorare sul genere, anzi. Quella dell’horror è la cornice nella quale si muove l’intera storia, il genere diventa un terreno fertile nel quale lavorare con i sottotesti e nel quale sperimentare, giocare con le aspettative del pubblico, talvolta ingannarlo, e prendersi qualche rischio. Il più grosso dei quali è sicuramente quello di rinunciare a molti degli elementi caratterizzanti di un film dell’orrore, a partire dalle scene più propriamente spaventose, perché no, Midsommar non fa paura, ma non doveva farne per funzionare.
L’idea che un film horror per esser definito tale debba spaventare lo spettatore è non solo desueta, ma anche errata. Un buon film horror è quello che sfrutta tutta una gamma di sentimenti negativi – quali la paura, l’angoscia, l’insicurezza – propri dei personaggi come motore narrativo della storia, nel tentativo di smuovere qualcosa all’interno dello spettatore, di spingerlo a riflettere, e magari a fare i conti con quelle sensazioni, non per forza di farlo saltare dalla poltrona. Concettualmente un horror può lavorare solamente sulla sensazione della paura, nel tentativo di traslarla dai personaggi allo spettatore, oppure può decidere di utilizzare una differente emozione appartenente a quella gamma emotiva nel tentativo di costruire un racconto che sia in sé portatore di un dato sentimento, che può anche differire da ciò che provano i personaggi sullo schermo. Midsommar è questo tipo di horror: non punta mai a spaventare lo spettatore, ma piuttosto racconta una storia che ha alla base un elemento inquietante, evidente fin da subito, e crea un’atmosfera tesa, che a lungo andare lavora sullo spettatore in maniera efficace, disturbandolo (più o meno) inconsciamente, e che sfrutta i toni e le atmosfere della favola, che, per contrasto, creano un effetto straniante che ne definisce il mood generale. Questi sono gli horror migliori, quelli più originali, quelli che riflettono sul genere e le sue potenzialità e sono in grado di sovvertirne cliché e consuetudini, creando qualcosa di diverso, unico ed originale.
Ottimi gli interpreti protagonisti, a partire dalla straordinaria Florence Pugh, astro nascente di Hollywood che all’ennesima performance di alto livello è diventato impossibile ignorare. La sua è una prova controllata, di grande effetto. E quell’ultimo sguardo, sul finale, è destinato a restare impresso nella memoria degli spettatori per molto, molto tempo. Ad affiancarla c’è Jack Reynor, nei panni del prototipo del cattivo fidanzato, William Jackson Harper, in quelli di un antropologo laurendo fortemente interessato alle tradizioni di Harga, Will Poulter, vera e propria spalla comica del gruppo, e Vilhelm Blomgren, interprete del solare ed amichevole Pelle. Tutti loro hanno ruoli più contenuti rispetto a quello della Pugh, ma riescono a brillare in numerose occasioni, soprattutto quando sono in gruppo, situazione nella quale la vivace scrittura di Aster permette loro di essere naturalissimi.
E su di lui, la mente dietro a questa splendida esperienza cinematografica, Ari Aster, regista emergente dallo spirito ribelle e lo stile elegante, spesso tacciato di essere presuntuoso, non possiamo che dire: è nata una stella. Se Hereditary era il colpo di fulmine, Midsommar è la conferma. Aster è destinato a fare grandi cose, qualunque sia il genere che deciderà di affrontare in seguito; i corti realizzati prima di Hereditary, ognuno diversissimo dall’altro per genere, approccio e tono, ci dimostrano che ci troviamo davanti ad un autore incredibilmente versatile e malleabile, in grado di affrontare diverse tipologie di racconto senza compromettere il suo tocco, senza farsi sopraffare dalla storia o dal genere, un autore a tutto tondo con uno stile preciso ed una capacità di controllo sulla materia narrativa invidiabile. Dopo questa piacevolissima conferma del suo talento, possiamo dire di trovarci di fronte ad uno degli autori americani più interessanti di questa generazione e non possiamo che essere molto fiduciosi per il suo futuro, qualunque genere decida di affrontare. Nell’attesa, assicuratevi di andare a vedere Midsommar in sala, dove merita di essere visto.