Di Daniele Ambrosini
Nomadland era il film più atteso della settantasettesima edizione della Mostra Cinematografica di Venezia, dove quest’anno aveva il compito di portare alta la bandiera americana, in quanto unico film di uno studios – se così si può definire la nuova Searchlight, sotto amministrazione Disney. In un anno praticamente privo dei titoli da Oscar che hanno fatto la fortuna internazionale della manifestazione veneziana nell’ultimo decennio, Nomadland era, per forza di cose, un titolo al quale guardare con grande attenzione e curiosità. Presentato come ultimo film del concorso, così da poter essere proiettato in contemporanea a Toronto, il film di Chloe Zhao non ha deluso le alte aspettative della vigilia, pur sollevando qualche questione sulla sua autrice e sul futuro del suo cinema.
Nomadland racconta la storia di Fern, una donna sulla sessantina che dopo aver perso suo marito ha rinunciato alla casa nella quale hanno vissuto insieme per diversi per un camper. In un primo momento Fern lavora per Amazon e parcheggia la sua casa mobile negli spazi adibiti dei motel della zona, ma poi, su consiglio dell’amica Linda May, si mette in viaggio ed entra in contatto con un’intera comunità di persone che vive come lei, i nuovi nomadi che sì, si spostano da un’area all’altra del paese con i loro camper, ma sono anche una comunità con basi fisse dove incontrarsi e creare legami.
Esattamente come il precedente The Rider e come Songs My Brother Taught Me prima ancora, Chloe Zhao parte da un protagonista – in questo caso la schiva ma amorevole Fern interpretata dalla sempre splendida Frances McDormand – per raccontare il contesto nel quale questo è inserito e gli individui che lo popolano. Fern è la protagonista, certo, ma ciò che definisce il suo viaggio come essere umano sono le persone che incontra, le storie che queste hanno da condividere e come queste si riflettono su di lei. In questo modo la Zhao crea un film dalla natura quasi episodica dove la sua protagonista diventa parte di un tutt’uno, pur dovendo fare i conti con la sua solitudine e quella conflittualità che le impedisce di mettere nuovamente radici da qualche parte o di riavvicinarsi al proprio passato.
Chloe Zhao costruisce un film affascinante che sembra il seguito diretto dei suoi lavori precedenti, un nuovo tassello della sua personale esplorazione di quell’America rurale che solitamente resta “ai margini” dell’immaginario comune del paese. Chi ha apprezzato The Rider ed ammira l’idea di cinema della Zhao apprezzerà sicuramente Nomadland, che assomiglia molto al suo film precedente, non solo nelle modalità espressive e nella messa in scena, ma anche nella struttura. Ha le stesse movenze, pone gli stessi accenti e segue più o meno lo stesso percorso narrativo, pur cambiando le premesse. E considerando quanto bene sia in grado di fare seguendo questo schema e quanto riconoscibile sia diventato il suo tocco nell’arco di una carriera così breve, questa “somiglianza” non è da intendersi in maniera negativa, anzi, tuttavia bisogna riconoscere che chi si aspettava una diversa evoluzione, che la regista sfoderasse qualche asso nella manica o si prendesse qualche rischio in più, potrebbe rimanere un po’ deluso.
Ciò che stupisce di più di Nomadland, forse, è la dolcezza con la quale la Zhao guarda ai suoi personaggi, una dolcezza già vista in passato nei suoi lavori precedenti, che, però, presentava sempre qualche elemento di durezza a contrasto. La natura libera e riflessiva dei dialoghi del film, delle apparizioni dei personaggi che popolano il mondo di Fern e della periferia americana, nonché l’attenzione nel modo in cui l’uomo è posto in relazione alla natura e come questa diventi veicolo di esplorazione interna sembrano portare in sé echi malickiani, ma è proprio qui che la dolcezza di cui prima fa la differenza. Se per l’autore texano la natura e la grazia, alla maniera di Sant’Agostino, sono entità separate ed in lotta tra loro, per la Zhao la faccenda è diversa, per lei la natura sembra essere immersa nella grazia. E questo fa sì che il suo sguardo sia unico, estremamente intimo e personale, per l’appunto dolce e aggraziato.
Chi parla di Oscar forse è un idealista, o forse non ha realizzato che la natura fortemente autoriale ed indipendente del progetto saranno un forte deterrente per buona parte dei votanti. Ma la speranza è sempre quella di essere smentiti. Per il resto, viene difficile immaginare come la Zhao se la caverà nel suo prossimo ingaggio, un film Marvel ad alto budget, non avendo mostrato alcun segno di compromesso neanche alla sua prima collaborazione con uno studios, perché in fondo la Searchlight è un colosso in campo indie. E soprattutto viene da chiedersi quali saranno i suoi prossimi passi, cosa la vedremo fare dopo, perché dopo Nomadland è difficile che possa tornare nuovamente a fare un film di questo tipo, con le stesse modalità. L’ora di un cambiamento è alle porte e noi lo aspettiamo con molta curiosità. Fino ad allora, però, Nomadland è un film che merita la nostra attenzione, soprattutto se visto di fianco alle opere precedenti della Zhao.
VOTO: 8/10