Pose 1×01 “Pilot” – La recensione

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Di Gabriele La Spina

Se Entertainment Weekly lo ha soprannominato come il Re Mida del piccolo schermo, un motivo ci sarà. Il produttore, regista e sceneggiatore Ryan Murphy si è pian piano imposto nel panorama dell’intrattenimento con lavori a volte coraggiosi e vincenti, altre blandi e poco riusciti, affermando pur sempre la sua posizione predominante nella televisione americana, grazie alla Fox che fino ad oggi gli ha dato una casa ma che ben presto lascerà per Netflix dopo un contratto milionario.

Celebre la serie antologica sugli stereotipi dell’horror, American Horror Story, l’ibrido serie-musical Glee, e il recente filone di cronaca nera American Crime Story; sempre grandi intuizioni quelle di Murphy, a volte si dice prese in prestito dai suoi collaboratori divenendo di fatto il volto dell’idea, ma in molti casi caratterizzate da una sorta di qualunquismo nel trattare tematiche e contenuti, che se da un lato favorisce la più ampia fruizione tra il grande pubblico, dall’altro lenisce l’immagine che ha di lui la critica televisiva.
Ha debuttato questa settimana la sua ultima creatura intitolata Pose, letteralmente “la posa”, “strike a pose”, il principio alla base del voguing, anche conosciuta come la vogue dance old style, quello stile di danza sui generis nato tra le comunità gay degli anni ’80, lo stile delle sale da ballo, delle House, il primo input che la nuova serie di Murphy ci propone. Con un inizio del tutto frenetico, il lunghissimo pilot di Pose, inizia con un gruppo di ballerini, formato da ragazzi gay e transessuali newyorkesi, la “House of Abundance”, pianificare un furto di abiti regali per bruciare la passerella per il tema  royalty che quella sera li attenda alla sala da ballo. Outsider alieni e alienati, riescono nel loro furto, per poi recarsi di corsa alla competizione che lasceranno in manette, ma come vere star. Si sprecano le frasi a effetto, e personaggi instant iconic come la madre della casa, la transessuale Elektra, ma tra tanti lustrini e luci abbaglianti, Pose possiede un’anima ben evidente, che subito dopo la presentazione del titolo, l’episodio va a mostrare.

Lo aveva già fatto con The Normal Heart nel 2014, ed era un po’ suo intento ripetersi con L’assassinio di Gianni Versace, perdendo in quest’ultimo caso il focus, Murphy racconta ancora una volta la generazione lenita dalla piaga dell’AIDS, gli incompresi ed emarginati che lo stesso regista ha conosciuto tangibilmente. L’attenzione si sposta quindi su Blanca, membro della House, che scopre di aver contratto il virus, e decide così di emanciparsi fondando lei stessa la sua casa, con il forte disappunto della madre adottiva Elektra. Avviene così l’incontro con Damon, aspirante ballerino rifiutato dalla sua famiglia dopo il suo coming out, che Blanca prenderà sotto la sua ala. Numerose le storyline che si innescano in breve tempo e che in qualche modo citano i migliori esempi di cinema LGBTQ di ieri e oggi; dalla vicenda di Damon che ricorda una versione alternativa di Billy Elliot, classico di Stephen Daldry, rendendo il personaggio protagonista di una vibrante scena di ballo nell’accademia di danza, indimenticabile; fino al racconto della prostituzione, dove la protagonista è la transessuale Angel, che come nel Tangerine di Sean Baker, vive ai margini, un’esistenza del tutto parallela alla comunità borghese americana di quel periodo, l’era di Trump e di Wall Street, ed è proprio con uno di quegli “yuppies” che si scontra il suo cammino, interpretato da Evan Peters, fortunatamente uno dei pochi ritorni del cast habitué di Murphy, e fin dei conti la carta vincente di Pose è proprio la novità di un cast completamente sconosciuto. Stan vive un matrimonio infelice, e trova in Angel il contatto con la realtà che gli mancava, la valvola di sfogo da quella falsità che contraddistingue personaggi come Matt Bromley, il suo capo interpretato da James Van Der Beek, che tanto ricorda il Matthew McConaughey di The Wolf of Wall Street.
Lo sfarzo, le danze elettrizzanti e i costumi accecanti, sono solo il contorno di una serie che già dal suo lunghissimo pilot, di ben 1 ora e 17 minuti, tanto ha offerto, nell’esporre personaggi ancora inediti sul piccolo schermo, tra ironia, forse involontaria, e commozione inevitabile. Pose si prospetta essere una delle migliori creazioni di Ryan Murphy e FX, dal forte potenziale, ma soprattutto con il compito di offrire spunti di riflessione sulla diversità, l’accettazione e sul concetto stesso di famiglia, poiché messe da parte i balli, la House è una famiglia, la seconda casa dei rifiutati. Citando lo speaker della ball room, che vediamo nell’episodio, “the category is…“: life. 

VOTO: 9/10


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