Di Daniele Ambrosini
Delphine Dayrieux è una scrittrice di mezza età che va incontro ad un successo inaspettato dopo la pubblicazione di un libro semiautobiografico nel quale ha fatto convergere la sua storia, ma anche quella della sua famiglia. Schiacciata dal peso delle aspettative sempre più alte nei confronti del suo lavoro, Delphine non riesce a trovare una storia valida per il suo prossimo romanzo. E proprio mentre tenta di superare il blocco dello scrittore incontra Elle, enigmatica ammiratrice con la quale entra molto presto in confidenza. Delphine resta affascinata da Elle e senza che riesca ad accorgersene finisce per diventare completamente dipendente da lei. Dal momento del loro primo incontro la vita di Delphine inizia ad andare a rotoli e la sua fragile psiche inizia a cedere.
Quello che non so di lei poggia interamente sulle spalle delle sue protagoniste, interpretate da Emmanuelle Seigner (moglie del regista) ed Eva Green. Le due attrici fanno del loro meglio, sono completamente devote ai proprio ruoli e si vede, ma non riescono comunque a risollevare una sceneggiatura che, nonostante porti le altisonanti firme di Roman Polanski e Oliver Assayas, risulta piatta e poco incisiva. I personaggi si muovono, parlano ed agiscono in modo sconnesso, a volte incredibilmente didascalico, altre semplicemente incomprensibile. Non c’è una linea di caratterizzazione chiara che vada oltre alla componente psicologica che emerge nel finale; infatti Polanski e Assayas hanno deliberatamente deciso di non approfondire affatto i loro personaggi, forse nel tentativo di accrescere il mistero, forse perché credevano che una caratterizzazione minimale avrebbe lasciato maggiore libertà alle interpreti, ma qualunque sia il motivo questa scelta semplicemente non funziona. Eva Green finisce per risultare macchiettistica, mentre Emmanuelle Seigner appare ripetitiva e a tratti forzata. Il ritmo della pellicola ed i toni del thriller vengono spesso spezzati da una comicità involontaria dovuta sempre all’altalenante qualità di scrittura del film che non riesce mai, fino al’ultimo, a trovare il giusto equilibrio, sono numerosi infatti i momenti morti, poco centrati o completamente superflui (si vedano le sequenze oniriche che non fanno che rimarcare ciò che già vediamo, seppure tra le righe, nel resto del film).
Polanski osa molto poco, dirige con mano tanto leggera che il suo tocco è praticamente impercettibile. Questa palese semplicità di stile sembra essere sintomo di stanchezza, perché sebbene la storia alle spalle del film potesse essere trasposta in modo potenzialmente molto interessante, ciò che Polanski ci ha consegnato è, per l’appunto, un opera stanca, che a sua volta stanca lo spettatore, perché si fa fatica (e francamente ci si annoia pure) a stare appresso ad un film in cui è ovvio che chi sta dietro la macchina da presa non ci sta neanche provando, tanto è sicuro di riuscire da non prendersi il minimo rischio. L’impostazione del film è la più classica che ci si possa aspettare da un thriller psicologico, la fotografia è piatta, lo svolgimento prevedibile. A salvarsi è forse solo la svolta finale, intrigante e piazzata al momento giusto, che sconvolge completamente il senso del film, peccato però che un buon finale o una buona idea di base non bastino a fare un buon film.
VOTO: 5/10