Di Massimo Vozza
Vicini alla chiusura di questa annata, il Roma Film Fest presenta A Private War, primo lungometraggio di finzione del documentarista Matthew Heineman interpretato da una Rosamund Pike (Gone Girl) che, nonostante la buona prova attoriale e i capelli costantemente crespi, non riesce a salvare un’operazione che è non riesce a centrare il suo obiettivo.
Il film racconta la vera storia di Marie Colvin, report di guerra per il britannico “Sunday Times” che si impegna in prima linea nei luoghi distrutti dai conflitti armati: Sri Lanka, Afghanistan, Libia, Siria. Nel frattempo vince premi, soffre di un disturbo da stress post-traumatico, si innamora, e si fa tentare dal desiderio di una vita normale, senza però mai rinunciare a raccontare le storie di chi ha bisogno.
La narrazione, basata su un articolo di Marie Brenner, è strutturata ciclicamente: il vissuto della protagonista nelle varie aree geografiche segnate dalla guerra è intervallato da momenti di vita privata in Inghilterra che precedono il viaggio e altri che lo seguono dove vengono mostrate le conseguenze del trovarsi continuamente faccia a faccia con la morte: la Colvin perde la vista da un occhio, assiste alla morte di bambini, altri civili e colleghi, eppure la ripetizione non tocca mai lo spettatore nel profondo e l’empatia con la protagonista non riesce a costruirsi sufficientemente passando per le lacrime da lei versate, le sigarette fumate e i drink bevuti. Il ritratto della donna davanti al quale ci troviamo è quindi frustrante poiché incompleto.
Il regista documenta il contesto attraverso una ricostruzione più che dignitosa ma distaccata, nonostante la buona volontà di metterci del sentimento. La guerra privata segnalata quindi dal titolo non riesce a sposarsi bene con quella pubblica, e necessita di essere supportata da dei dialoghi didascalici e dalla voce fuoricampo della protagonista, senza però ottenere il risultato sperato.
La macchina da presa si muove in più occasioni con incertezza e accentua la profondità di campo ogni volta che ne ha l’occasione; questa scelta stilistica funziona quando a essere inquadrati sono i luoghi colpiti dai conflitti armati mentre perde in quelli londinesi, dove risulta eccessivamente forzata.
Il cast maschile che accompagna la Pike, del quale fa parte anche Jamie Dornan, Tom Hollander e Stanley Tucci, recita dignitosamente senza spiccare. Il problema non sta tanto nelle loro capacità ma nella scrittura che gli dà spazio principalmente per far parlare di sé la protagonista. La mancanza di equilibrio e intreccio tra storia personale e storia mondiale, conflitti interiori e esteriori, documentazione e finzione, immagine e parola, sono sostanzialmente i grandi problemi del film: per venir soddisfatti tocca riguardare Zero Dark Thirty il quale, nonostante un eccessivo eroismo qui più sottile, aveva le medesime intenzioni ma le centrava in pieno nella sua forma finale.
VOTO: 5.5/10