Roma 2018: Friday’s Child – La recensione del film con Tye Sheridan e Caleb Landry Jones

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Di Daniele Ambrosini

Richie ha appena compito 18 anni quando decide di voler lasciare l’orfanotrofio dove ha vissuto dopo essere stato rifiutato da alcune famiglie adottive con le quali non è riuscito a legare. Inizia a fare una serie di lavoretti, tutto quello che trova, dal muratore al fattorino, per potersi permettere di pagare l’affitto di una piccola casetta in periferia. Solo e senza alcuna conoscenza al di fuori dell’istituto che si sta lasciando alle spalle, Richie si avvicina a Swim, un piccolo criminale con il fare affettuoso che lo prende sotto la sua ala. Un’inaspettata amicizia femminile arriverà in uno dei momenti più difficili della vita dell’orfano, ma un segreto nel passato di entrambi potrebbe distruggere il loro rapporto da un momento all’altro.
A.J. Edwards si è formato sui set di Terrence Malick, con il quale ha collaborato come montatore e consulente a tutti i suoi film da The New World – Il nuovo mondo a Song to Song, e sullo stile del regista texano Edwards costruisce i fondamenti del suo cinema. Anche senza conoscere il passato di Edwards al fianco di Malick, il debito nei suoi confronti appare evidente per tutto il film: a partire da una sceneggiatura destrutturata in cui gli eventi si susseguono come in un ordinato flusso di coscienza dove i dialoghi sono brevi ed incisivi, riflessivi anche in bocca ai personaggi più inaspettati, fino ad arrivare ad una messa in scena che fa largo uso di ampi movimenti di camera, giochi di luce (naturale, ovviamente) e inquadrature grandangolari, tutto nel cinema di Edwards riporta al cinema di Malick. Bisogna però riconoscere al regista di aver fatto proprio, almeno in parte, questo stile, ormai così chiaramente identificabile nel nome di Malick, sporcandolo. Una certa propensione per l’utilizzo di supporti fissi e alla linearità narrativa, ed uno sguardo molto attento ad una condizione politica e sociale dell’America contemporanea ben precisa fanno di questo film un ibrido interessante. 
Se l’opera prima di Edwards era prodotta dallo stesso Malick, questa seconda prova dietro la macchina da presa è invece prodotta da un altro regista con cui Edwards ha un debito piuttosto evidente: Gus Van Sant. I temi e le modalità espressive di questa disillusa storia di periferia ricordano alla lontana quelle della trilogia della morte diretta da Van Sant nei primi anni duemila. Il problema maggiore di Edwards è quello di dipendere molto dai suoi punti di riferimento, di non riuscire a nascondere il proprio percorso di formazione, di non riuscire a creare un linguaggio cinematografico che sia suo al 100%. Tra Malick, Van Sant e Xavier Dolan (il cambio di formato sul finale del film è utilizzato quasi per le stesse finalità narrative per cui veniva utilizzato in Mommy), il film di Edwards si presenta, appunto, come un interessante ibrido cinematografico che ricerca la propria voce nella sua forma derivata, senza riuscirci mai del tutto. 
Che poi Friday’s Child abbia molto da offrire allo spettatore che sia in grado di mettere in secondo piano le questioni stilistiche è assolutamente fuori discussione. La storia messa su da Edwards si sviluppa come racconto di formazione nella sua prima parte, per poi prendere una svolta narrativa inaspettata e virare verso il genere crime, cambiando del tutto il destino del film nella sua parte finale. Quello snodo di trama che solamente andando avanti si rivela così decisivo per le sorti dell’intera operazione, permette al regista di insinuare il dubbio verso i propri personaggi e di creare un leggero alone di mistero, che in un’atmosfera quasi sospesa come quella di derivazione malickiana è un’aggiunta davvero riuscita. Ciò che non convince del tutto però è la modalità dell’arrivo di quella svolta e le motivazioni che ne sono alla base. Risulta perciò evidente che l’intento di Edwards sia quello di studiare i propri personaggi, di osservarli in seguito agli eventi di quella sottile, eppure efficace, linea di trama che c’è alla base del film, piuttosto che approfondirli e comprenderne le ragioni; lavora per cenni, non scandaglia nel profondo di questi personaggi, creando un interessante effetto straniante che, però, non è del tutto vincente nel momento che lascia il punto di svolta del film senza una reale spiegazione ed il protagonista un po’ abbandonato a sé stesso. 
Quello creato da Edwards, però, è un universo cinematografico coerente in cui il sistema di aspettative che si instaura tra regista e spettatore viene sempre rispettato, anche quando non sembra garantire il risultato migliore per il film stesso, ma certamente siamo di fronte ad un’opera con una un’idea di narrativa compatta e precisa che non viene mai tradita. Tye Sheridan, Caleb Landry Jones e Imogen Poots contribuiscono a portare in vita questa visione cinematografica unitaria con le loro ottime performance; per tutti e tre si tratta solo dell’ultimo tassello delle loro carriere in ascesa, sempre più orientate verso un cinema indipendente e coraggioso.

VOTO: 7/10