Di Simone Fabriziani
Frank Sheeran, veterano della Seconda guerra mondiale e sindacalista con connessioni con la mafia, ricorda il suo possibile coinvolgimento nell’uccisione di Jimmy Hoffa, un leader sindacalista americano. Dagli anni ’60 con l’assassinio Kennedy fino ai giorni nostri, la grande (e piccola) storia degli Stati Uniti d’America passa in rassegna di fronte agli occhi del malavitoso Sheeran in The Irishman, nuova pietra miliare nella carriera dietro la macchina da presa del premio Oscar Martin Scorsese.
Presentato in anteprima mondiale al New York Film Festival e in quella italiana in occasione della 14° Festa del Cinema di Roma, The Irishman ha già il sapore di pellicola epocale, pronta a scuotere l’annata cinematografica in corso e a scrivere indelebilmente un nuovo tassello nel pur lunghissimo percorso accidentato di capolavori imprescindibili del gangster movie. In un certo senso, difatti, il The Irishman di Scorsese chiude idealmente una trilogia dell’anima che era gloriosamente iniziata nel 1990 con Quei bravi ragazzi e poi proseguita nel 1995 con il sottovalutato Casinò; in entrambi i lungometraggi era protagonista l’inossidabile Robert De Niro, al suo ritorno davanti la macchina da presa per il regista italo-americano proprio dal 1995; lo attorniano nuovi e vecchi amici di grande schermo, a partire dal leggendario Al Pacino, al suo primo film con Scorsese, fino ai ritrovati Joe Pesci e Harvey Keitel.
Una vera e propria rimpatriata di volti che hanno affettuosamente accompagnato la poetica di Marty, il suo viaggio personale attraverso il mondo criminale per raccontare un’America contraddittoria, marcia fino al midollo, talmente parossistica che The Irishman ne diventa in un certo modo il riflesso logico e il punto di approdo ideale. Non esistono più i gangster di una volta, questo il regista lo sa, e per scrivere una lettera di addio appassionata a quel mondo che lui ha condannato ma che pur sempre lo ha accompagnato da vicino, firma il suo film più lungo, più ambizioso, più funereo; un vero e proprio requiem al cinema che Scorsese ha inseguito e abbracciato per una vita intera.
La grande storia degli USA si dispiega davanti agli occhio dello spettatore grazie al punto di vista e alla voce fuori campo di Frank “L’irlandese” Sheeran, glaciale ed asettico sicario della mafia italo-americana responsabile dell’uccisione di Jimmy Hoffa, celebre sindacalista americano, per decenni uno dei più grandi misteri irrisolti della storia americana del Novecento. Per raccontare tutto ciò, Scorsese impiega tre ore e mezza di minutaggio, un’infinità che fa da contrappunto ad una certa libertà produttiva che molte delle major hollywoodiane gli hanno proibito di mettere in atto per il progetto ispirato al romanzo “I Heard You Paint Houses” di Charles Brandt e sceneggiato dal premio Oscar Steven Zaillian (Schindler’s List), ma che l’intraprendente Netflix ha accolto di buon cuore, lasciando carta bianca al team del regista.
The Irishman non è soltanto una lunghissima (ed impegnativa) epopea cinematografica sui meccanismi piramidali di una sovra-struttura mafiosa che da decenni muove le redini di un’America inerme, ma è anche la riflessione di un mondo, quello criminoso, che non agisce più come una volta, anzi di cui non esiste più traccia se non negli ultimi testimoni oculari di una eredità criminale che appartiene al passato e che detiene nelle proprie mani la risposta ai misteri della Storia occulta. In tal senso il ruolo di Frank Sheeran (un Robert De Niro mai così in forma sul grande schermo da anni) è un po quello dello stesso spettatore, testimone silenzioso, e forse anche un po complice, del dispiegarsi dell’”altra Storia”, quella piramidale perpetrata dai rapporti contrattuali tra la mafia tout court rappresentata dall’enigmatico Russell Bufalino (un ritrovato e sornione Joe Pesci) e lo Stato, qui nelle vesti del sindacalista Jimmy Hoffa (un imperdibile Al Pacino). Ma l’aria che si respira alla fine del film è quella del funerale, della Morte che bussa alla porta di ognuno dei protagonisti; il profumo che aleggia è quello della vecchiezza delle case di riposo per anziani, contenitore (meta) fisico in cui le ultime spoglie della criminalità italo-americana, ed anche del cinema gangster di Martin Scorsese, riposeranno come monito di un tempo che mai tornerà indietro.
Martin Scorsese qui fa i conti con il suo cinema, noi spettatori facciamo i conti con la caducità degli eventi, della piccola e della grande storia di cui tutti siamo un po testimoni oculari. Una elegante e rigorosa lezione di cinema di un grande anziano della macchina da presa che ha ancora tanto, troppo da raccontarci.
VOTO: 8,5/10