Di Gabriele La Spina
Con Big Little Lies ha saputo catturare i complessi ritratti di un gruppo di donne californiane, e mescolandosi armoniosamente all’incalzante sceneggiatura di David E. Kelly, ha realizzato un prodotto di prestigio per HBO; dallo scorso luglio, sempre più votato al piccolo schermo, Jean Marc-Vallée ha firmato la regia di un progetto del tutto differente.
Creata da Marti Noxon, produttrice di serie televisive storiche come Buffy, si tratta dell’adattamento del romanzo d’esordio di Gillian Flynn, pubblicato dieci anni fa in Italia con il titolo “Sulla pelle”. Ma nonostante la Flynn abbia già adattato in passato i suoi romanzi, come nel caso di Gone Girl per la regia di David Fincher, sono un gruppo di sceneggiatori che hanno già lavorato per il piccolo schermo a scrivere gli episodi di Sharp Objects, su tutti Ariella Blejer e Dawn Kamoche, il duo della serie Cloak & Dagger.
Creata da Marti Noxon, produttrice di serie televisive storiche come Buffy, si tratta dell’adattamento del romanzo d’esordio di Gillian Flynn, pubblicato dieci anni fa in Italia con il titolo “Sulla pelle”. Ma nonostante la Flynn abbia già adattato in passato i suoi romanzi, come nel caso di Gone Girl per la regia di David Fincher, sono un gruppo di sceneggiatori che hanno già lavorato per il piccolo schermo a scrivere gli episodi di Sharp Objects, su tutti Ariella Blejer e Dawn Kamoche, il duo della serie Cloak & Dagger.
In Sharp Objects seguiamo le vicende di una giornalista di nome Camille, non proprio un alto esempio di giornalismo, che nel caso di un violento omicidio avvenuto nella sua città natale, trova sia un’occasione per l’articolo che potrebbe affrontarla, ma al contempo un viaggio nel proprio passato, un’implicita resa dei conti, nonché un confronto con i demoni che la tormentano. Ci ritroviamo così ad assistere maggiormente al giro di vite di tre donne, magari interpretabili come i tre stadi dell’età della donna nel celebre dipinto di Klimt; la traumatizzata Camille, l’irreprensibile madre Adora, e la sorella minore Amma, ninfetta nabokoviana tra ghiaccio e fuoco.
Quello di Vallée è un mosaico multi sfaccettato, le quali tessere vengono inserite con estremo dosaggio, miscuglio di ricordi, traumi, paure e giudizi; così come il corpo di Camille, la cui pelle non è altro che un arazzo del suo vissuto, tanto tetro quanto irreparabile. La visione nichilista del proprio presente è nella protagonista quanto nei personaggi comprimari, e se di True Detective questa miniserie è quasi l’erede spirituale, per i punti in comune nel linguaggio narrativo, ha meno a che fare con l’iconica serie di Nic Pizzolatto, riguardo il tessuto sociale trattato; in True Detective abbiamo visto una società marcia, adagiata in una sorta di fanghiglia d’inferiorità; in Sharp Objects è una borghesia americana non troppo evoluta a mostrarsi, in trappola nel loop dei propri ricordi e in qualche modo annebbiata da essi. Nel seguire la serie ci si ritrova infatti quasi vittime di un lungo sonno, complice uno script stilizzato, tanto da ricadere nella povertà di contenuto in alcuni episodi, ma capace di rendere eccellentemente un’atmosfera, arida, come l’animo di Camille, tant’è che la cittadina del Missouri potrebbe essere interpretata come un’esternazione dell’animo della stessa protagonista; il ritorno nella sua città natale funge in qualche modo da percorso terapeutico, ripercorrendo i passi che l’hanno condotta al baratro della depressione, dell’autolesionismo e dell’alcolismo. Con il direttore del suo giornale ad ascoltare i suoi resoconti telefonicamente a distanza, vestendo i panni del suo terapeuta: e se tutto ciò che abbiamo visto finora non fosse stato altro che una seduta di ipnosi della protagonista? Tuttavia, il male con cui Camille si ritrova faccia a faccia al culmine della serie è ben più reale di un sogno.
Così come in Big Little Lies, e nei precedenti lavori cinematografici come Dallas Buyers Club e Wild, il regista Jean Marc-Vallée, che dirige ogni singolo episodio della serie, si dimostra un maestro nella mescolanza di pensieri e realtà dei personaggi; in alcuni frangenti il passato dei ricordi si fonde con le immagini del presente, complice un eccelso lavoro di montaggio; riuscendo nei primi attimi a confondere quasi lo spettatore. Nella regia di Vallée ogni personaggio sembra avvolto dalle ombre, non è un caso che le riprese su Patricia Clarkson siano le più buie, mentre quelle su Amy Adams in bilico tra luci e ombre. Come in Big Little Lies inoltre, la musica ha un ruolo fondamentale, grazie al lavoro di Sue Jacobs fedele music supervisor di Vallée. Nella miniserie andata in onda lo scorso anno ogni protagonista femminile aveva un legame con determinati stili musicali e canzoni; per fare degli esempi nelle scene di Madeline sentivamo spesso “September Song” della pianista Agnes Obel, mentre in quelle di Celeste, “Straight From the Heart”, della cantante soul Irma Thomas; in Sharp Objects la protagonista è quasi in assoluto Camille quindi è il suo stato d’animo ad essere espresso in ogni sua sfaccettatura, passando così dal rock al country; mentre per la madre Adora, ballad spesse volte in lingua francese. Un colpo di classe è poi la sigla d’apertura, il cui brano cambia per ogni episodio della stagione, passando da diversi stili musicali.
Ma non è solo una buona regia o una scrittura brillante a contribuire al successo di una serie, conta anche il suo cast. In Sharp Objects le ottime performance non mancano; la meravigliosa Patricia Clarkson, caratterista, interprete per numerosi registi da Martin Scorsese a Woody Allen, ritrae la “mammina cara” più efficace del piccolo schermo vista negli ultimi anni, alla stregua della Mildred Pierce di Joan Crawford; ottima la giovane Eliza Scanlen in un ruolo sinistro, ambiguo e sorprendentemente maturo per l’età dell’attrice, ma l’attenzione è su Amy Adams. L’attrice si trova, forse per la prima volta, fuori dalla sua comfort zone, in un ruolo rischioso. La Adams interpreta la sua Camille con vulnerabilità, mettendosi a nudo con uno sguardo perso e vitreo; un ruolo tutt’altro che affascinante, piuttosto tendente al patetismo, che nel corso degli episodi vediamo discendere in un’oblio, in una sorta di perdita del senso della realtà, e intensificazione del dolore, che è poi il sentore perenne di Sharp Objects.
Per difendere gli ascolti in calo della seconda stagione di Westworld, recentemente HBO ha definito la serie come un prodotto non adatto a tutti. Impossibile contraddire; se il piccolo schermo ha in questi anni subito una rinascita, resta tuttavia ancora HBO a perpetuare quel percorso di produzione di un cinema televisivo. Sharp Objects si aggiunge indubbiamente tra quelle produzioni. Un genere definito come slow burn, una fiamma che brucia con lentezza, ovvero una narrazione che dispensa con parsimonia gli elementi fondamentali; quella di Vallée è infatti una miniserie dal linguaggio vicino al cinema indipendente americano, in parte esperienza visiva, che non accontenta lo spettatore con i prevedibili climax dei più comuni thriller, e ne è una prova proprio l’episodio finale, che nel suo ultimo frangente nasconde un twist del tutto inaspettato, e attenzione ai titoli di coda.
VOTO: 8/10