Stranger Things – La recensione della seconda stagione della serie fenomeno di Netflix

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Di Gabriele La Spina

Negli ultimi due anni abbiamo visto un ritorno degli anni ’80 in diversi campi artistici, dalla moda, e ne sono un esempio alcuni capi delle collezioni di Gucci, alla musica, dove i beat e le sonorità elettroniche richiamano i sound dei Police e degli A-ha, fino ad arrivare al cinema e alla televisione. Complice o forse risultato di questa tendenza è la serie televisiva dei fratelli Duffer, Stranger Things, serie fenomeno che ha superato in casa Netflix il successo di Orange Is The New Black, da prima punta di diamante del servizio di streaming.

Stranger Things ha tratto le sue fondamenta dalle citazioni risultando un compiendo della cultura cinematografica anni ’80 e ’90: Alien, La cosa, Nightmare, E.T., alcune delle pellicole citate con una mescolanza della più celebre narrativa di Stephen King, da Stand by Me a It. La prima stagione si è distinta per la semplicità del suo racconto, con un uso ben dosato della componente sovrannaturale, abbiamo seguito le vicende di un gruppo di ragazzini nella piccola città di Hawkins, alle prese con una serie di circostanze misteriose: la sparizione di uno dei loro amici, l’avvento di una strana ragazzina dai poteri telecinetici di nome Undici, presa di diritto dalle protagoniste dei romanzi Carrie e L’incendiaria di King, e una dimensione parallela sconosciuta chiamata Sottosopra.
Quello della serie è stato un successo quasi del tutto inaspettato, e dopo l’annuncio del rinnovo per altre tre stagioni fino al 2019, i fratelli Duffer hanno fatto una promessa per la seconda stagione; tutto sarebbe stato più grande e più oscuro. Promessa mantenuta almeno in parte, visto che la seconda stagione di Stranger Things approdata su Netflix in tempo per la Festa di Halloween, si presenta come un racconto più scanzonato rispetto al precedente, indebolito da diversi cliché televisivi prima assenti. È passato un anno dai fatti raccontati nella prima stagione, è il 1984, e i giovani Mike, Dustin, Lucas e Will, tornato quasi dall’oltretomba per cui definito dai compagni “zombi”, sembrano riprendere le proprie vite ignari che la storia è destinata a ripetersi, letteralmente. Sì, perché volutamente o non, lo spettatore cade per mano degli sceneggiatori, nella sensazione di déjà vu, le dinamiche delle storyline sono una copia carbone del primo capitolo della serie, e quindi Joyce, interpretata da una sempre più nevrotica Winona Ryder, vive un nuovo dramma del figlio Will, stavolta non scomparso ma posseduto da un’entità del Sottosopra, il che scaturirà diverse sequenze in stile L’esorcista; Nancy e Jonathan sono di nuovo insieme ma stavolta per vendicare la memoria di Barb, il che scatenerà ancora una volta il disappunto del fidanzato Steve, desinato alla rassegnazione; mentre i ragazzini si cimentano nella ricerca di un esserino, il girino meglio conosciuto come “Dart”, non altro che un cucciolo di Demogorgone (il temibile mostro che rapì Will l’anno prima). A mescolare le carte in tavola ci sono però le new entry del cast; tra cui Bob, il nuovo compagno di Joyce, interpretato da un frutto degli anni ’80 come Sean Astin, protagonista del cult I Goonies, da cui Stranger Things ha anche tratto ispirazione, e una nuova problematica famiglia con Max “Mad Max”, una ragazzina dai capelli rossi in pieno stile Beverly Marsh di It, e il fratellastro bullo Billy, tra i personaggi più fastidiosi della serie. Le storyline recuperate dalla prima stagione sono quindi destinate a mutare almeno, scambiando dalla seconda metà della stagione le accoppiate di personaggi e le dinamiche. È apprezzabile lo sforzo degli sceneggiatori nel voler approfondire le psicologie di quei personaggi che tanto sono entrati nel cuore di milioni di spettatori; Undici, la dolcissima Millie Bobby Brown, prima tenuta nascosta da Jim, va alla ricerca di sua madre e attraverso lei incappa nella compagna di prigionie della sua infanzia, nel laboratorio dove è stata sottoposta a una lunga serie di esperimenti. Roman, parte di una gang di punk ribelli, vendicatori mascherati, ha il dono di generare illusioni ottiche, e con un training in pieno stile X-Men addestra Undici, ora consapevole di chiamarsi Jane, alle piene potenzialità della sua telecinesi, un addestramento che le sarà utile per il chiassoso finale della stagione.
Da grandi budget, derivano grandi responsabilità, parafrasando una celebre frase dello Spider-Man di Sam Raimi, e vale per i Duffer che inevitabilmente cadono nel tranello di strafare con effetti speciali, poi non così tanto eccelsi, e un’ostentazione della componente sovrannaturale. Undici qui, ormai quasi pienamente conscia del suo potere, chiude porte e sposta oggetti con la stessa frequenza della Samantha di Vita da Strega, e se la prima stagione di Stranger Things poteva ricordare Alien del 1979, la seconda è di pari passo Aliens – Scontro finale del 1986, qui i Demogorgoni sono una miriade, manovrati da una sorta di madre che ha simili fattezze della regina aliena del film di Cameron; e i registi non si limitano dal riprendere la famosa scena del radar, complice la presenza di un membro del cast della stessa pellicola: Paul Reiser, nell’antitesi del personaggio che vestì per Cameron. Ma a salvare la baracca di eccessi di CGI a buon mercato, musiche invasive per evidenziare l’epoca e scivoloni probabilmente non volutamente camp, sono ancora una volta i giovani interpreti. Mentre Noah Schnapp, nei panni di Will, può dimostrare maggiormente le sue capacità essendo stavolta presenza fissa del cast, diverte il duo formato da Gaten Matarazzo Caleb McLaughlin, Dustin e Lucas, ma sono nuovamente Finn Wolfhard e Millie Bobby Brown, con la loro ingenua e acerba love story, a suscitare qualche sospiro.
La consapevolezza di avere di fronte altre tre stagioni, ha forse ispirato nei Duffer la creazione di una stagione più transitiva di quanto si possa pensare, un po’ fan service, un po’ crogiolarsi nel proprio successo; la seconda stagione di Stranger Things, seppur con qualche passo falso o meglio passo più lungo della gamba, non manca di divertire e i suoi protagonisti, soprattutto i più giovani, di strappare un sorriso e a volte qualche lacrimuccia. Nel suo finale con il “Ballo d’Inverno”, la stagione ci pone l’inevitabile crescita dei ragazzi, con “Time After Time” di Cyndi Lauper come perfetta colonna sonora; le cose cambieranno e questa transizione porterà a un nuovo meritato sviluppo per la serie che adesso ha il compito di abbandonare le citazioni, specie quelle di sé stessa, e continuare a costruire un suo universo narrativo.

VOTO: 6/10

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