Stranger Things – La recensione della terza stagione della serie cult con Winona Ryder e Millie Bobby Brown
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Di Daniele Ambrosini
La terza stagione di Stranger Things è arrivata su Netflix il quattro luglio, giorno della festa d’Indipendenza americana, promettendoci i fuochi d’artificio e tenendo fede a quella promessa. Questa annata della serie dei fratelli Duffer, infatti, è la più colorata e scoppiettante delle tre, ma non solo: è anche la più riuscita.
La storia riparte qualche mese dopo la fine della seconda stagione, nell’estate del 1985. Sotto il sole di Hawkins tutto sembra essere normale e procedere con una ritrovata tranquillità, così il gruppo di adolescenti che nel corso dell’anno scolastico ha sconfitto un mostro proveniente da un’altra dimensione e, probabilmente, salvato l’intera umanità, per la seconda volta, può concedersi un po’ di svago. Mike e Eleven iniziano una relazione stabile, cosa che indispettisce non poco Hopper, Lucas e Max continuano a punzecchiarsi a vicenda, mentre Dustin torna dal campeggio annunciando il suo fidanzamento con una ragazza che vive nello Utah (suscitando la scetticismo dei suoi amici) e Will continua a voler giocare a Dungeons & Dragons, come se niente nella sua vita fosse cambiato. E ancora, Hopper decide di farsi avanti con Joyce, Steve inizia a lavorare in una gelateria nel nuovissimo e catalizzante centro commerciale della città, al fianco di Robin, mentre Jonathan e Nancy fanno i primi passi nel mondo del giornalismo, e la signora Wheeler si prende una cotta per il Billy, impiegato come bagnino della piscina comunale.
Quella che sembra una calda estate d’amore e di passioni, di quelle indimenticabili e formative, viene poi, ovviamente, sconvolta dall’inevitabile e sempre più rocambolesco richiamo del Sottosopra. Una nuova minaccia incombe su Hawkins e questa volta è decisamente più grande e pericolosa delle volte precedenti. Nella vicenda sono coinvolti i russi, un losco centro commerciale ed un politico corrotto.
La terza stagione ha alla base un paio di intuizioni davvero buone. La prima e fondamentale di queste è quella, puramente narrativa, di mischiare le carte in tavola e dividere i protagonisti in sottogruppi che restano per buona parte della serie non comunicanti, e quindi si ritrovano ad indagare ed affrontare la minaccia del nuovo mostro, e l’annessa cospirazione governativa, in maniera indipendente, senza mai avere un’immagine complessiva di ciò che sta realmente accadendo, almeno fino all’entusiasmante ed adrenalinico finale. Il più riuscito e fresco di questi gruppi è quello composto da Dustin, Steve e le new entry Robin e Erica, così improbabile e scanzonato da risultare sempre divertente e efficace.
Ma al di là dell’intrigante struttura narrativa a più archi, che vede i protagonisti a lungo separati, ciò che rende davvero riuscita la terza stagione di Stranger Things è il fatto che, finalmente, la serie pare aver trovato il tono giusto per portare avanti una narrazione di questo tipo. Le prime due stagioni non erano certo prive di elementi di alleggerimento, né tanto meno di riusciti interventi comici, ma il tono generale era decisamente troppo dark per quelle che sono le sue premesse. Dopotutto stiamo pur sempre parlando di uno show di fantascienza, che ha bisogno di essere preso con la sua sana dose di serietà, ma che ha in sé uno spirito goliardico evidentissimo. E questa stagione è quella che meglio di tutte è riuscita a mettere in risalto questo spirito, a giocare con la leggerezza insita nell’operazione e a trovare un tono medio, a metà tra il dramma e la commedia che non viri pesantemente verso l’uno o l’altro genere, ma che sia semplicemente molto equilibrato e, soprattutto, renda il tutto più godibile. Dopo due stagioni dalle atmosfere più oscure, a Hawkins è finalmente arrivata l’estate e con essa, una insperata ventata d’aria fresca, un po’ di luce e quella leggerezza che è lecito concedersi nella stagione più spensierata dell’anno.
I fratelli Duffer in passato avevano dichiarato di considerare ogni nuova stagione di Stranger Things come un vero e proprio sequel. E se la seconda stagione aveva ricalcato quasi alla lettera quanto fatto nel capitolo originale, la terza adotta maggiormente lo spirito del sequel e, pur restando fedele allo spirito, si discosta dai precedenti appuntamenti, cambiando il tono generale, giocando con le infinite possibilità narrative che una serie così offre, spingendosi fino al limite dell’assurdo, semplicemente perché con un prodotto del genere è possibile farlo senza venir meno al patto stipulato in partenza con lo spettatore. Stranger Things 3 si prende qualche rischio, rilancia costantemente e porta tutto all’eccesso, rendendo ogni cosa più grande di quanto non fosse in precedenza.
Priva di momenti morti e di qualunque concessione alla noia, Stranger Things 3 è un coloratissimo ed energico omaggio agli anni ’80, ed in particolare alle commedie per famiglie e ai film action, con riferimenti più o meno velati a opere come Terminator e Ritorno al Futuro. Le dinamiche interne dei personaggi, pure, fanno riferimento ad opere della cultura pop dell’epoca, e talvolta sembrano desunte anche dalle sitcom e dalle commedie romantiche, ed essendo una serie più di struttura che di relazione, va benissimo così. Stranger Things è un contenitore ricchissimo, che non nasconde il suo debito nei confronti del periodo storico che continua ad alimentare l’intera serie, ma non per questo è da considerarsi un’opera derivativa; quella portata avanti dai Duffer è un’immaginifica e dolcissima rielaborazione di strutture, stilemi ed elementi di un passato al quale non si può che guardare con nostalgica affettuosità, ed in questo risulta estremamente originale.
Volendo riassumere questa stagione con una sola scena lo si potrebbe fare con l’ormai celeberrima sequenza dedicata a “Neverending Story” di Limahl, brano facente parte della colonna sonora del film La Storia Infinita e dell’infanzia di tutti. Una sequenza così spensierata, piazzata in un punto così inaspettato della storia, da risultare un’evidente manifestazione di intenti. Mentre tutto si fa più serio e l’azione prende il sopravvento, in preparazione dell’epico finale, la soave voce di Dustin (e della sua attesissima spalla musicale) ci regala un attimo di pausa e ci ricorda che, nonostante tutto, questo è uno show di puro intrattenimento, da prendere con la dovuta leggerezza, per divertirsi e, magari, commuoversi.
Ad arricchire la serie ci sono una fotografia fatta di luci al neon che alimenta l’effetto nostalgia con grazia ed eleganza, un montaggio vivace in grado di giocare sapientemente con il ritmo della narrazione ed assecondarne i movimenti, e le ottime interpretazioni del cast. Non solo i candidati all’Emmy Millie Bobby Brown e David Harbour e la candidata all’Oscar Winona Ryder, ogni singolo attore della serie fa un lavoro eccellente ed ha modo di brillare, almeno una volta, nel corso della stagione; menzione speciale per la new entry Maya Hawke, aggiunta simpatica e già amatissima dal pubblico, con lei, stella nascente di Hollywood presto sul grande schermo per Quentin Tarantino, Stranger Things ha fatto un grande acquisto.
Unica nota dolente della stagione è il personaggio di Will, promosso a protagonista assoluto della seconda stagione e qui un po’ messo in disparte, nonostante le interessanti implicazioni di alcuni elementi della sua storyline, che hanno portato il web a discutere (forse in modo poco pertinente) della sessualità del personaggio. Peccato, speriamo che nella prossima annata riesca a rifarsi e ad avere un ruolo più centrale nella narrazione. Poi c’è da dire che l’evoluzione delle creature del Sottosopra sembra ormai sfuggire ad una logica di continuità, ma poco importa finché quella linea narrativa assolve alla sua funzione, cosa che finora ha fatto egregiamente, perché in fondo non è quello il focus della serie, che non ha mai promesso di approfondire realmente quel mondo lì, il Sottosopra, che, per quanto affascinante, resta solamente un pretesto per raccontare altro. E quell’altro non è mai stato così affascinante e coinvolgente.