Di Simone Fabriziani
Si è conclusa ieri, con il tredicesimo episodio dal titolo “The Word”, la seconda stagione di The Handmaid’s Tale, serie televisiva creata da Bruce Miller ed ispirata al romanzo distopico pubblicato negli anni ’80 dalla scrittrice statunitense Margaret Atwood. Se il primo appuntamento televisivo era un adattamento piuttosto fedele all’origine scritta, il secondo si imbatte nel terreno inesplorato dell’ampliamento originale del materiale preesistente. Con risultati non sempre eccellenti.
La serie targata Hulu (andata in onda in contemporanea in Italia sul servizio on demand di TimVision) questa volta supera le parole pubblicate dalla Atwood e confeziona uno show televisivo che nulla ha da invidiare al precedente capitolo. Dalle scenografie, ai costumi, fino alla straordinaria direzione della fotografia, The Handmaid’s Tale è ancora una volta il miglior incubo distopico mai portato sul piccolo schermo. Guidato da un ensemble cast eccezionale su cui, stavolta, svettano la già premiata con l’Emmy Elisabeth Moss e Yvonne Strahovski , lo show questa volta si carica di due parole chiave di interpretazione: maternità e ineluttabilità.
Maternità, perché stavolta il cardine a due poli opposti della tensione narrativa è quella tra June/Offred e la sua aguzzina e madre/moglie surrogata Serena Waterford, ora che il futuro del nucleo famigliare è scosso dall’arrivo imminente di un bambino custodito nel ventre dell’ancella, promesso futuro di rinascita per entrambe. Ineluttabilità, perché, nonostante il incipit incoraggiante, non si riesce a fuggire da Gilead; uno state of mind non solo appartenente alle mappe geografiche pure inventate dalla Atwood, ma che qui assumono appunto la maschera del destino grigio ed inevitabile di una società americana che ha fatto della differenza di sesso e delle minoranze della multicolore comunità statunitense il suo incubo peggiore.
La seconda stagione di The Handmaid’s Tale, pur non assente dall’inevitabile reiterazione di tematiche e situazioni già affrontata nell’equilibratissima prima, mantiene tuttavia alta l’asticella dell’aspettativa, regalando una nuova riflessione sull’universo finzionale ma allo stesso tempo fin troppo reale creato da Margaret Atwood con una scrittura solida dei suoi personaggi e un senso di urgenza storico-sociale francamente impareggiabile nel panorama pure ricchissimo di spunti topici del piccolo schermo americano.
VOTO: 7/10