Di Giuseppe Fadda
Quello della voce narrante è un espediente rischioso. Può essere una soluzione tematicamente motivata, efficace e capace di arricchire l’intero film; basti pensare a La rabbia giovane di Terrence Malick e al modo in cui l’ingenuo resoconto di Holly/Sissy Spacek incornicia le sanguinose, brutali vicende narrate. Più spesso, però, il voice-over è un trucco facile e didascalico, utilizzato per veicolare informazioni che non si potrebbe esprimere altrimenti, per vie più sottili. Il caso di The World to Come, pellicola di Mona Fastvold premiata con il Queer Lion alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia, è particolarmente interessante: la voce narrante è ingombrante, onnipresente, forse addirittura prevalente rispetto ai dialoghi. Si potrebbe dire che l’espediente è usato a sproposito, e a ragione. Ma, incredibilmente, funziona. In primis, perché ci dà accesso a una dimensione di interiorità del personaggio a cui non potremmo accedere in altro modo. Abigail, la narratrice del film, è una donna schiva e di poche parole: il suo racconto in voice-over ci fa conoscere la sua inesperta ma eloquente vena poetica, che non potrà mai espletare altrove. In secondo luogo, l’utilizzo così esteso della voce narrante sembra ribadire una forte mediazione nella rappresentazione, come se quello a cui stessimo assistendo fosse una sorta di documento nascosto dalla Storia, una voce dimenticata ma impressa sulle pagine di un vecchio, polveroso taccuino. In un certo senso, The World to Come è e senza proprio questo.
L’ambientazione del film è il 1856. È l’epoca delle grandi migrazioni verso l’Ovest, verso il vasto, apparentemente interminabile entroterra americano, alla scoperta – e alla conquista violenta – di ciò che quel continente poteva offrire loro. Abigail vive in un villaggio di frontiera nello Stato di New York e il suo mondo è tanto piccolo quanto è vasta la natura che lo circonda: in mezzo alle incombenze date dall’inverno glaciale e dalle ristrettezze economiche, la vita di Abigail è fatta di oneri da rispettare. Il poco tempo che le avanza lo usa per scrivere sul suo diario, mentre spera di poter racimolare abbastanza soldi per potersi comprare un atlante. Il suo matrimonio con il gentile ma taciturno Dyer è diventante triste e abitudinario, frantumato dai colpi del lutto che li ha recentemente colpiti, la perdita della loro unica figlia. La coppia è interpretata da Katherine Waterston e Casey Affleck, entrambi straordinari come non lo erano, rispettivamente, dai tempi di Vizio di forma e Manchester by the Sea. Giocando per sottrazioni, con pochi sguardi e gesti riescono a catturare tutta la loro storia: il dolore, il distacco, l’incomunicabilità, ma anche un triste affetto che brucia ancora sotto le ceneri della loro unione.
La vita di Abigail viene stravolta dall’arrivo nel villaggio di una nuova coppia: il rozzo, possessivo Finney (Christopher Abbott, bravo nel ruolo meno interessante del film) e la bellissima, sfuggente Tallie (Vanessa Kirby). Tra Abigail e Tallie sboccia immediatamente un’amicizia affiatata e confidenziale, che lascia presto spazio a un sentimento nuovo, irriconoscibile per loro eppure indomabile. Quando il film si concentra sulle due donne, è al suo meglio: le due attrici hanno un’alchimia spontanea e irresistibile, in un costante gioco di sguardi, sorrisi, piccoli messaggi cifrati che scorrono sui volti. Nelle loro scene insieme, Waterston si illumina, ci mostra come in presenza dell’altra Abigail riprende vita. Kirby, dal canto suo, ha un ruolo meno sfaccettato ma compensa con il magnetismo che la caratterizza come interprete. In particolare, è una performance che colpisce per il suo calore e la sua vitalità e non è un caso che il film sia particolarmente efficace nelle scene che la coinvolgono. L’innamoramento è accompagnato dalla meravigliosa colonna sonora di Daniel Blumberg, in cui si specchiano la dolorosa esaltazione e il liberatorio sentimento di scoperta delle due protagoniste. La natura selvaggia, non addomesticata è tanto protagonista quanto le due donne: la meravigliosa fotografia di Andre Chemetoff cattura lo splendore intriso di pericolo del paesaggio, la cui concezione viene parzialmente ribaltata rispetto alla tradizione ottocentesca americana. La natura non è luogo da colonizzare e conquistare, ma è il luogo in cui le due amanti possono trovare rifugio, in perfetta armonia e non in contrasto con le loro circostanze.
Purtroppo, alla così suggestiva prima metà non succede un proseguimento altrettanto brillante. Il film è basato su un racconto di Jim Sheperd, che ha co-scritto la sceneggiatura insieme a Ron Hansen: il finale, in un certo senso, era inevitabile, non solo perché vincolato al testo di partenza ma anche perché una conclusione meno dura sarebbe stata probabilmente anacronistica rispetto al periodo trattato. Ma è anche vero che il film perde mordente man mano che la tragedia comincia a profilarsi all’orizzonte: non perché la messa in scena sia meno efficace, o le attrici meno convincenti (anzi gli attori, perché il ritratto sofferto di Affleck aggiunge molto al film) , o il controllo della regista meno saldo e orientato. Al contrario, il talento delle persone coinvolte è sempre ben evidente. Ma la verità è che nella rappresentazione queer, al cinema e altrove, troviamo già tantissime storie in merito alla sofferenza, alla separazione, al dolore: l’opera di Fastvold mette in luce qualcosa di nuovo su questa sofferenza? Non proprio, e inevitabilmente la vicenda percorre sentieri già tracciati o comunque relativamente prevedibili. Tanto è che il finale riesce più frustrante che commovente. La bellezza del film – ed è molta – risiede altrove, prima: è nelle scene di libertà rubata, in cui Abigail e Tally reclamano per sé stesse il piacere e la soddisfazione che sono sempre obbligate a dare, senza riceverne alcuno. Quando mette al centro la speranza, la possibilità di un’intima ribellione, The World to Come è un gioiello che fa solo ben sperare nei prossimi progetti della sua regista.
Voto: 7/10