Di Giuseppe Fadda
Il 2014 vide l’uscita in sala di quello che, insieme a Rosetta (1999), è forse il più bel film dei fratelli Dardenne: Due giorni, una notte, la storia di un’operaia costretta a visitare i suoi colleghi uno per uno, nella speranza di convincerli a rinunciare a un bonus di 1000 euro per permetterle di mantenere il suo posto di lavoro. Sostenuto da una regia sobria, una scrittura perspicace e un’interpretazione in stato di grazia di Marion Cotillard, Due giorni, una notte seppe mantenersi in perfetto equilibrio tra il realismo e la parabola, tra un’appassionata denuncia sociale e un sincero tributo alla solidarietà di classe. Questo equilibrio si riscontra meno nei film successivi del duo, La ragazza senza nome (2016) e L’età giovane (2019). Non si tratta di film privi di elementi di interesse, ma sono indubbiamente opere minori, in cui tanto l’occhio attento quanto l’autentico fervore ideologico dei registi rimangono attenuati da una struttura narrativa debole, talvolta poco plausibile.
Anche Tori e Lokita, l’ultima fatica dei fratelli, presenta alcuni risvolti non del tutto credibili. La sua colpa più grande, tuttavia, è un’altra. I Dardenne non sono mai stati dei registi particolarmente sottili, né avrebbero motivo di esserlo: dal momento che la loro visione del cinema è dichiaratamente politica, va da sé che le loro opere siano uno strumento per veicolare un messaggio o – ancor meglio – una denuncia. In questo caso, però, la funzione comunicativa del film è rimarcata con una tale enfasi da rasentare il didascalismo più palese. La scena conclusiva, in cui la morale dell’opera è fondamentale enunciata da uno dei personaggi centrali, rappresenta un passo falso inaspettato per due registi generalmente consapevoli di quanto una storia ben narrata non abbia bisogno di ulteriori spiegazioni per farsi comprendere.
Forse che il rispetto dei Dardenne per l’intelligenza dei suoi spettatori sia venuto meno? O forse questa scelta discutibile è da imputare all’urgenza del tema trattato? Come se, di fronte all’importanza del soggetto, palesare il messaggio dell’opera fosse non solo scusabile, ma un vero e proprio dovere? La seconda ipotesi sembra più plausibile proprio in virtù di quel senso di disperazione e impotenza che percorre l’intero film e che ne costituisce il principale punto di forza. Se Tori e Lokita, in ultima analisi, lascia un seggio maggiore rispetto ai due lavori precedenti dei registi, è per via dell’implacabile rabbia che sembra starne alla base. La durezza dell’oppressione sociale non è più mitigata o bilanciata dalla solidarietà umana, come in altri film dei Dardenne. Qui, lo sfruttamento e la marginalizzazione invadono ogni aspetto dell’esistenza, impedendo alla solidarietà di offrire possibilità concrete.
Lokita (Joely Mbundu) e Tori (Pablo Schils) vivono in Belgio: lei ha 16 anni e viene dal Camerun, lui ne ha 11 ed è originario del Benin. Non sono fratelli, ma è come se lo fossero: si sono incontrati durante il viaggio verso l’Europa, e da allora sono inseparabili, vivendo insieme come una famiglia. Lavorano per Betim (Alban Ukaj), che usa il ristorante per coprire i suoi giri di spaccio e i suoi fattorini per recapitare le consegne senza destare sospetti. Lokita, spesso costretta a concedere favori sessuali a Betim in cambio di qualche soldo in più, vorrebbe ottenere il visto per poter lavorare onestamente e costruirsi una vita migliore, ma la sua richiesta viene negata. Esasperata dalle richieste di denaro da parte della madre in Cameroon, tormentata dai trafficanti che l’hanno condotta in Europa e che insistono perché ripaghi il debito al più presto, Lokita si rivolge a Betim per ottenere un visto falso: per racimolare i soldi necessari, Lokita accetta di lavorare per tre mesi coltivare cannabis in una serra in mezzo al nulla, dove viene chiusa a chiave e privata pure del suo telefono per comunicare con Tori. Le sequenze più potenti del film sono proprio alcune tra quelle ambientate nella serra, in cui i Dardenne dimostrano ancora una volta la loro maestria nell’utilizzare le strategie della suspense per trasmettere l’orrore di una determinata condizione sociale.
Come sempre, i registi utilizzano un approccio sobrio e naturalistico, rifiutando il sentimentalismo e il melodramma per poter restituire un senso di veridicità. In questo caso, l’effetto è riuscito solo fino a un certo punto, perché Tori e Lokita non acquistano mai la vividezza e l’autenticità, per esempio, della Sandra di Due giorni, una notte. Questo sicuramente non per colpa dei due giovani attori, capaci di tratteggiare con estrema spontaneità un rapporto di incrollabile fiducia e reciproco affetto, brillando tanto nei momenti di panico quanto in quelli di tenerezza. Il problema risiede più nella sceneggiatura, che costruisce il personaggio di Lokita attorno a una serie consecutiva e ininterrotta di soprusi, abusi e violenze. A film finito, l’impressione è che i due protagonisti, Lokita in primis, siano più vittime simboliche che persone a tutto tondo. Se questo è un bene o un male, dovrà deciderlo il singolo spettatore.
E forse la bellezza di questo film dei Dardenne sta proprio nel fatto che i suoi limiti e difetti trovano un loro senso, o perlomeno una giustificazione, nell’architettura ideologica complessiva: così, la monodimensionalità di Lokita appare sensata in un’opera che vuole soprattutto parlare di come una situazione di invisibilità legale porti alla cancellazione fisica della persona stessa, rendendola vulnerabile a sfruttamenti di ogni sorta. Proprio nello stesso modo in cui la pedante scena finale, forse, rappresenta la rinuncia definitiva alla sottigliezza e alla sfaccettatura, come a voler dire che, di fronte alla tragedia e all’ingiustizia, certe cose vadano gridate e basta.
Tori e Lokita debutta nelle sale italiane con Lucky Red a partire da giovedì 24 novembre
VOTO: ★★★½