Di Simone Fabriziani
Nel 1973 a Roma viene rapito dalla ‘ndrangheta il giovane John Paul Getty III, nipote del petroliere John Paul Getty, l’uomo più ricco del mondo. Mentre il nonno si rifiuta di pagare il cospicuo riscatto, la madre Gail è costretta dalle circostanze a fare squadra con Fletcher Chase, un ex negoziatore della Cia. A raccontare il rapimento più chiacchierato degli anni ’70 ci pensa il regista britannico Ridley Scott nel processo produttivo più complesso e titanico della sua carriera
Tutti i soldi del mondo è il frutto dell’adattamento del libro di John Pearson “Painfully Rich: The Outrageous Fortune and Misfortunes of the Heirs of J. Paul Getty”, portato sul grande schermo dal lavoro congiunto del regista Scott e dello sceneggiatore David Scarpa, trasformando però la solida base letteraria in una pellicola destina al grande schermo che mostra però tutte le crepe di un lavoro di scrittura ed adattamento compromissorio tra la necessità della spettacolarizzazione hollywoodiana della vicenda da cronaca nera e lo scavo psicologico delle varie pedine in gioco all’indomani dell’infausto rapimento del giovane rampollo John Paul Getty III (Charlie Plummer). Un film che, forte dello scandalo della sostituzione all’ultimo minuto di Kevin Spacey per arrivare ai panni severi di Christopher Plummer, lesina però nello svolgimento del tessuto narrativo, eternamente indeciso se seguire i dettami del dynasty movie e del thriller investigativo.
Se i miracolosi reshoot di soli nove giorni con post-produzione alle strette e con i minuti contanti dalla scadenza non sono altro che un valore tutto sommato aggiunto all’indecisa pellicola di Scott, a salvare Tutti i soldi del mondo dall’aura della mediocritas è la dedizione degli interpreti nel portare in vita le parole di David Scarpa e le indicazioni vigorose del regista inglese: se Michelle Williams e Mark Wahlberg riesumano i loro personaggi con manierismo e grazia, è la scelta di passare l’ingombrante testimone di John Paul Getty al veterano Christopher Plummer, severo e ed enigmatico ritratto di un magnate del petrolio che racchiude in sé tutte le contraddizioni che la pellicola si porta ambiziosamente sulle spalle: cos’è un uomo ricco se non un pover’uomo con i soldi dopotutto? La linea di demarcazione tra amore per la propria famiglia e schiavitù dai propri profitto si fa dunque sottilissima, eticamente emblematica di un motore umano che dimostra come si può amare di più il denaro che il sangue del proprio sangue.
Al di là del confine sottile tra bene e male, tra buono e cattivo, tra ricchezza e povertà.
VOTO: 6/10