Di Simone Fabriziani
Mancano soltanto sei episodi al termine della terza stagione di Twin Peaks, e ancora non molto è accaduto. Questo potrebbe essere un incipit superficiale ma generalmente non del tutto erroneo per riassumere i fili narrativi del revival di David Lynch e Mark Frost, ma sarebbe una presa di posizione troppo ingiusta per un prodotto televisivo senza compromessi a prescindere.
La parte 12 del lungo “film di diciotto ore” preannunciato da Lynch durante e subito dopo le riprese del revival è forse quella che, parallelamente e in direzione contraria all’ormai leggendario episodio 8 “Gotta Light?”, più si discosta dalla narrazione principale e focalizza le proprie energie su un tempo di narrazione “altro” e distante, quasi fosse cristallizzato nella cronologia di una racconto ambizioso, a cavallo tra misteri esoterici, crimini di periferia ed indagini incrociate in lungo ed in largo per il vasto territorio statunitense. “Let’s Rock” raggiunge in un certo senso il picco della sensibilità post-moderna dell’ultimo Lynch, riponendo le sue maggiori qualità nell’imprevedibilità del racconto, completamente scevro dalle malattie della serialità televisiva odierna.
La parte 12 è tutta costruita sulle aspettative, quelle dello spettatore più esigente, quello del neo-spettatore casuale e meno addentro i misteri della serie, riempiendole apparentemente con il nulla: dilatazioni narrative portate all’estremo parossismo, senso estenuante di immobilità e senso di maledetta incombenza controbilanciano le risoluzioni di alcuni degli archi narrativi conclusi nei due episodi precedenti. A sei episodi dalla fine della stagione ( e forse dell’intera serie) il dubbio rimane: sarà troppo tardi per riprendere molte delle succose file narrative, delle infinite suggestioni raccontate per immagini e con linguaggi inusuali da Frost e Lynch? Il mistero nel mistero si infittisce, i fan più agguerriti iniziano ad organizzare rivolte pubbliche per le tante, troppe domande alle (poche) risposte che si bramano, ma il gioco di Twin Peaks – Il ritorno è forse proprio questo: decostruire le strutture d’acciaio inossidabile della serialità televisiva di oggi, spesso troppo asservita al fan pleasing, colorandola di scorciatoie impervie, sbocchi narrativi imprevedibili, dilatazioni temporali impossibili da digerire, anche per lo spettatore più smaliziato. Ma non per Lynch, ancora una volta artista a tutto tondo che, senza troppo baccano e sensazionalismi sul piccolo schermo, sta cambiano di nuovo il modo di concepire la fruizione dell’arte in televisione.
VOTO: 7,5/10