Di Giuseppe Fadda
Il 2018 è stato il prima anno dal 1982 a non vedere in sala un film diretto da Woody Allen, sebbene il suo ultimo film, Un giorno di pioggia a New York, fosse già pronto. Ma Amazon Studios ha deciso di sospendere la distribuzione del film a tempo indeterminato: in seguito ad una causa intentata dal regista, nel maggio 2019 i diritti per la distribuzione sono tornati ad Allen, anche se il film non ha tuttora una data di distribuzione negli Stati Uniti. Il motivo dietro la decisione di Amazon sta nelle dichiarazioni di Dylan Farrow, figlia adottiva di Mia Farrow, ex-compagna del regista, che accusò Allen di averla molestata sessualmente nel 1992. Allen all’epoca fu dichiarato innocente, ma Dylan Farrow ancora oggi rivendica la veridicità delle accuse. Si tratta di un caso estremamente complesso, dato il background della famiglia Allen-Farrow, l’ambiguità del verdetto del giudice e i resoconti contrastanti di tutte le persone coinvolte.
Non rientra nello scopo (né nelle facoltà) dell’autore di questa recensione poter stabilire se Allen sia colpevole o innocente, né dire se sia giusto o meno che Amazon abbia interrotto la distribuzione del film. Bisogna quindi separare l’opera dall’autore? No, questa sarebbe una risposta decisamente troppo semplificante, anche perché non si può pensare che il pensiero e la vita di un autore non si riversino almeno in parte nell’opera. Queste sono questioni, è necessario ripeterlo, che vanno ben oltre lo scopo di questa recensione. Quello che emerge dal punto di vista estetico e artistico guardando Un giorno di pioggia a New York è una cosa sola: che Woody Allen è un regista che, semplicemente, ha esaurito le cose da dire.
Non rientra nello scopo (né nelle facoltà) dell’autore di questa recensione poter stabilire se Allen sia colpevole o innocente, né dire se sia giusto o meno che Amazon abbia interrotto la distribuzione del film. Bisogna quindi separare l’opera dall’autore? No, questa sarebbe una risposta decisamente troppo semplificante, anche perché non si può pensare che il pensiero e la vita di un autore non si riversino almeno in parte nell’opera. Queste sono questioni, è necessario ripeterlo, che vanno ben oltre lo scopo di questa recensione. Quello che emerge dal punto di vista estetico e artistico guardando Un giorno di pioggia a New York è una cosa sola: che Woody Allen è un regista che, semplicemente, ha esaurito le cose da dire.
Il protagonista del film, interpretato da Timothée Chalamet, è una variante particolarmente insopportabile del personaggio nevrotico e in preda ad una crisi esistenziale che esemplifica l’intera carriera di Allen (e che, nelle sue rappresentazioni migliori, è stato protagonista di alcuni dei suoi film più belli, come Io e Annie e Manhattan). Figlio di una famiglia altolocata ben inserita nell’élite intellettuale newyorkese, Gatsby Welles (sì, questo è il suo nome, che già da un’idea di non ci sia niente che vada per il sottile in tutto il film) è indeciso su cosa fare della sua vita ed è disgustato dall’agio in cui è cresciuto (anche se è proprio quell’agio a permettergli, tuttora, di riposare sugli allori). Frequenta l’università di Yardley, ma resta lì solo per la sua fidanzata Ashleigh (Elle Fanning), una ragazza brillante ma un po’ ingenua. Quando Ashleigh deve recarsi a New York per intervistare il famoso regista Roland Pollard (Liev Schreiber), Gatsby decide di partire con lei nella speranza di passare un weekend romantico (anche se i due hanno idee di romanticismo diametralmente opposte). Ma mentre l’intervista di Ashleigh degenera in una rocambolesca avventura attraverso la città e vari personaggi dell’industria cinematografica, Gatsby si ritrova, da solo. Che l’incontro con Shannon (Selena Gomez) sia la svolta decisiva di cui la sua vita aveva bisogno?
Una storia che sembra essere perfettamente nelle corde di Allen – eppure non c’è niente che funzioni. Non si può negare che Allen sia tra i migliori sceneggiatori della storia del cinema, ma qui sembra esser diventato la parodia di sé stesso, con dialoghi stilizzati fino all’inverosimile: per ogni battuta brillante ce ne sono dieci scontante; i momenti “rivelatori” sono di una banalità sconcertante, se non addirittura ridicoli; quasi ogni snodo narrativo risulta prevedibile.
Ma il problema principale sono i personaggi, che non sono mai persone e risultano estremizzazioni di ruoli già visti all’interno della filmografia alleniana. Gatsby risulta un’accozzaglia di stereotipi con cui è impossibile empatizzare e relazionarsi – la sua storia non coinvolge mai lo spettatore perché non c’è una traccia di autenticità né nella sua caratterizzazione né, purtroppo, nell’interpretazione di Chalamet, il cui talento indiscusso sembra essere sprecato nelle mani di Allen. Il discorso è ancora peggiore per quanto riguarda la protagonista femminile. Non si può discutere sul fatto che, nel corso della sua carriera, Allen abbia scritto magnifici ruoli per donne (basti pensare a Annie in Io e Annie, a Mary e Tracy in Manhattan, a Eve in Interiors, a Holly e Lee in Hannah e le sue sorelle, a Linda ne La dea dell’amore e ovviamente a Jasmine in Blue Jasmine), ma a giudicare da questo film non si direbbe. Elle Fanning, un’attrice dalla versatilità straordinaria, fa quello che può per salvare il personaggio di Ashleigh, ma non può rimediare a una sceneggiatura che non sembra mai decidere se vuole che la sua ingenuità sia adorabile o biasimevole. Ciò che rende il suo ruolo particolarmente problematico è il fatto che Allen sembra implicitamente incolparla di tutto quelle che le accade nel corso della trama, deresponsabilizzando i personaggi maschili con cui interagisce. C’è un momento in cui Gatsby riflette su Ashely e pensa: “Chissà perché alle ragazze piacciono sempre gli uomini maturi”. E’ impossibile, in questo caso, mettere da parte le accuse di molestie nei confronti del regista ed è innegabile che la battuta, specie date le circostanze, faccia decisamente storcere il naso.
I personaggi di contorno sono perlopiù macchiette: Liev Schrieber interpreta un acclamato regista in preda a un blocco creativo (che originalità), Jude Law il suo fidato ma frustrato sceneggiatore e Diego Luna un seducente (leggasi: viscido) divo del cinema in cui Ashleigh si imbatte mentre vaga per gli studios. A nessuno viene data l’occasione di lasciare un’impronta in un senso o nell’altro. Rebecca Hall compare per un cameo abbastanza anonimo, mentre verso la fine Cherry Jones fa il suo ingresso in scena nei panni della madre di Gatsby per recitare un monologo che non fa che aggiungere all’assurdità del film. Sorprendentemente, è Selena Gomez a dare la miglior interpretazione del film: il suo personaggio è indubbiamente stereotipato, ma l’attrice-cantante dimostra una notevole disinvoltura che le permette di portare naturalezza in un film che ne ha disperatamente bisogno.
Ma a parte il piccolo ruolo della Gomez, c’è ben poco nel film da salvare. Persino il grande Vittorio Storaro, il cui splendido lavoro in qualità di direttore della fotografia era l’unica ragione per vedere il precedente film di Allen (La ruota delle meraviglie), stavolta sembra essersi accontentato di confezionare un prodotto pulito ma senza nessun tipo di inventiva. Tutto ciò che ha reso (e continuerà a rendere sempre) Woody Allen un regista e sceneggiatore unico e originale, è drasticamente assente in Un giorno di pioggia a New York: o forse è presente talmente tanto da saturare il suo potenziale e diventare ridondante. I fan più sfegatati del regista continueranno a dire che la sua carriera è stata rovinata dal movimento MeToo e dalla sua fantomatica “caccia alle streghe”, ma la verità è che i suoi film parlano chiaro, o meglio non parlano, perché non hanno niente da comunicare.
Voto: 4,5/10
Un giorno di pioggia a New York uscirà in sala il 28 novembre 2019.