Una vita in fuga – La recensione del film di Sean Penn con Dylan Penn

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 Di Daniele Ambrosini

A distanza di cinque anni dallo sbertucciato Il tuo ultimo sguardo, Sean Penn torna dietro la macchina da presa con Una vita in fuga, un film dalle tinte melò che lo vede anche protagonista al fianco della figlia Dylan, alla quale regala una meritata occasione per brillare. È lei con la sua ottima performance che tiene in piedi il film. 

Basato sulla storia vera della giornalista Jennifer Vogel, Una vita in fuga racconta la sua travagliata infanzia e il rapporto con il padre, un uomo goffo e sfuggente che si rese protagonista di una enorme truffa ai danni del governo americano, che si concluse con un maxi inseguimento. 

A fianco a Dylan c’è anche suo fratello Hopper Jack Penn, in un ruolo piccolino ma significativo, guastato dall’età scenicamente inadeguata, poiché la maggior parte delle sue scene lo ritraggono come un adolescente, quando sia lui che la sorella non lo sembrano affatto. La parte centrale del film soffre un po’ per questa strana decisione di non utilizzare controparti più giovani, ma data la sua centralità nell’economia del racconto di certo non sorprende. 

Questo film è un affare di famiglia per Penn, e mentre molti potrebbero gridare al nepotismo e accusare il film in vari modi (è poi tanto diverso da quanto fatto dal film “family and friends” di PTA, Licorice Pizza?), questo è forse il maggiore pregio del film, perché al di là di tutti i discorsi che si possono fare, è innegabile che il suo autore ci tenga molto, e questo traspare in ogni singolo fotogramma, con una certa autenticità. Una vita in fuga ha cuore, e questo per un film di questo tipo, conta più di tutto. 

Il territorio è quello del racconto dell’America rurale, quella dei “veri americani”, un terreno quantomeno scivoloso per le possibili implicazioni politiche che soprattutto negli ultimi anni hanno caratterizzato questo tipo di racconto. Ma Penn imposta il suo racconto in maniera abbastanza intelligente da rifuggire questi aspetti, o quanto meno minimizzandoli. A partire dal suo personaggio, che non è il classico self-entitled white trash man che ci aspetteremmo di vedere da un film del genere, ma un inetto alla ricerca di espedienti, un bugiardo compulsivo dal cuore d’oro. 

Il paragone che viene automatico è quello con Elegia americana di Ron Howard, ma qui c’è più cuore e nonostante i toni da melò, non si ricerca l’emotività con la stessa insistenza, con la stessa prevedibilità. Penn fa anche un lavoro migliore dietro la macchina da presa, anche qui, forse perché si tratta di un progetto particolarmente sentito. Si tratta più che altro di piccoli guizzi, laddove non proprio di una eccellente direzione degli attori, tutti davvero in ottima forma. 

C’è però una certa prevedibilità di fondo, nel meccanismo narrativo, nell’ormai assodato processo del racconto dei self-made men and women che rendono grande l’America, di cui ormai il mercato è saturo e a cui forse oltreoceano abbiamo iniziato, in anni recenti, a guardare con occhio più critico. Che si tratti di Eastwood o di Penn, c’è sempre qualcosa che fa storcere il naso, che sembra artificiale, glorificante e non poi così edificante. 

Ciò che aiuta davvero Una vita in fuga – che è lungi dall’essere un film perfetto, ed anzi sicuramente sarà molto divisivo anche per la sua natura piaciona e la sue enfasi melodrammatica – è appunto il suo cuore, un qualcosa di inafferrabile, che lo eleva oltre la mediocrità nella quale restava di rimanere impantanato. 

Una vita in fuga debutta nelle sale italiane con Lucky Red a partire da giovedì 31 marzo

VOTO: ★★★


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