In concorso in questa 74esima mostra del cinema di Venezia, Human Flow non è certo la prima testimonianza di natura umanitaria dell’artista cinese, Ai Weiwei.
Quella di Ai Weiwei si posiziona a metà tra l’istallazione artistica e il documentario, eliminando dall’equazione qualsiasi tipo di narrazione, lasciando come unico filo conduttore quello del flusso di esseri umani sparsi ai vari angoli della terra (in moltissimi casi neanche troppo lontani dalla civiltà, o da noi), nello specifico Mosul, Calais, Gaza, Turchia, Bangladesh, Giordania, Ungheria, il confine tra Usa e Messico e molti altri. La figura del migrante, sia esso siriano, messicano o sub-sahariano, le colpe dei vari governi o la carenza di aiuti umanitari, sono alcuni dei vari temi sollevati dal regista, presenza massiccia più spesso davanti alla telecamera (scherzosamente) che dietro.
Il regista/artista si mette spesso in gioco in prima persona, aggirandosi tra campi profughi, consolando una donna del confine ungherese, o danzando con un gruppo di rifugiati Afghani. Un quadro preoccupante di una buona fetta della popolazione terreste, le cui problematiche, oltre spesso il livello delle condizioni di vita, è far si che vengano trattati come esseri umani e non come meri numeri da gestire da parte anche delle organizzazioni umanitarie.
Ai Weiwei si immerge tra di loro, ci mostra con ampissime riprese effettuate tramite droni, l’agglomerazioni di centri per gli sfollati o per i profughi, bidonville o tendopoli in cui in media, un migrante, vive per diversi anni della propria vita. L’occhio artistico viene prestato alla causa umanitaria, realizzando dei mini ritratti di “individui qualsiasi”, che spesso e volentieri dimostrano un pensiero più lucido e razionale di certe controparti politiche (connazionali e no).
Il film non cerca di dare delle risposte ai problemi evidenziati, non è il suo compito. Si limita a fare brevi panoramiche sulle situazioni più critiche dal punto di vista di migranti e rifugiati politici (sorprendente veder quanto la “situazione italiana” sia marginale nell’insieme globale), sperando in una possibile risoluzione da parte degli enti più competenti.
Toccante l’inquadratura finale, con le pile di giubbotti di salvataggio impilati lungo la costa di una località a scelta di quelle più soggette a migrazione per via marittima, che personalmente mi ha rimandato alla pila di scarpe vista ad Auschwitz, i cui proprietari, furono vittime di un indifferenza storica molto simile a quella attuale.
Una pellicola valida ed istruttiva, sconvolge mentre è bella da vedere, emotivamente toccante. Forse non la regia più conturbante o sconvolgente, ma un prodotto assolutamente utile e contemporaneo.
VOTO: 9/10