Di Simone Fabriziani
Costruito come delicato e tradizionale ritratto privato degli ultimi anni di impero della Regina Vittoria d’Inghilterra, Vittoria e Abdul di Stephen Frears nasconde dietro la sua patina apparentemente manicheista, piacevolmente popolare ma artisticamente imperfetta e fin troppo parziale e lacunosa un vero e proprio testamento per il grande schermo alla dama britannica Judi Dench.
Riprendendo il ruolo della sovrana inglese più longeva della storia del del Regno Unito fino all’arrivo di Elisabetta II dopo la candidatura all’Oscar per La mia regina (1997), Dench regala ancora una volta il proprio volto severo per il sequel apocrifo di Stephen Frears, favola di un affetto proibito ed impossibile nell’Inghilterra della fine dell’Ottocento che cambiò le sorti dell’Impero di Vittoria passando per le camere private dei palazzi della monarchia.
L’insolita amicizia confidenziale tra Abdul Karim, giovanissimo segretario indiano, e la potente sovrana cambiò sorti e consuetudini del protocollo e dei valori etici della Corona inglese proprio nel frangente storico in cui la Regina Vittoria, anziana e provata per le perdite del consorte Filippo e del confidente John Brown (era interpretato da Billy Connolly nel film di John Madden del 1997), era al massimo della sua influenza politica e territoriale con il titolo di Imperatrice d’India. La relazione tra i due, innocente e tenera, creò scompigli tra servi e parenti stretti di Vittoria, portando alla lenta discesa nel decadimento fisico e psicologico della longeva sovrana.
Raccontato con piglio tradizionale e (fin troppo) accessibile, Vittoria e Abdul è un Frears decisamente minore rispetto alle eccellenti e passate collaborazioni per il grande schermo con Judi Dench (su tutte gli ottimi ed ironici Lady Henderson presenta e Philomena); dalla cadenza semplicistica e manichea nel tratteggiare i personaggi di contorno, il film di Stephen Frears colpisce però dritto nell’intento (anche) volutamente politico di raccontare pregiudizi e tensioni culturali tra la forma mentis dell’Impero Britannico (fortemente razzista) e i cittadini indiani soggiogati al potere politico del regno, giocando quindi con il delicato tema del confronto e della creazione di ponti ideali tra culture (e addirittura religioni) differenti. Che nel clima politico occidentale odierno sembra però l’ennesimo, prevedibile attacco ai protp-fondamentalismi dell’America attuale. Nel cast anche Michael Gambon, Simon Callow, Eddie Izzard e la rivelazione Ali Fazal.
Voto: 6,5/10