Venezia 76: Panama Papers – La recensione del film di Steven Soderbergh con Meryl Streep e Gary Oldman

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Di Daniele Ambrosini

Steven Soderbergh gira il suo secondo film per Netflix dopo il riuscito esperimento di High Flying Birds e lo fa dirigendo uno script di Scott Z. Burns, uno dei suoi più assidui collaboratori, in passato autore di The Informant! e Effetti Collaterali, con un cast di tutto rispetto capitanato da una camaleontica Meryl Streep, Gary Oldman e Antonio Banderas

Panama Papers (titolo italiano di The Laundromat) racconta la storia dell’omonimo scandalo scoppiato nel 2016 che ha rivelato come lo studio legale Mossack Fonseca fornisse assistenza e gestisse centinaia di migliaia di conti offshore per clienti facoltosi desiderosi di eludere il fisco, ovvero di ridurre la pressione tributaria attraverso metodi, per la maggior parte, legali. Una truffa a regola d’arte, poiché operata nella zona grigia della legislazione economica internazionale. Nel film lo smascheramento dello studio legale responsabile di questo complicato intrigo economico parte da Ellen Martin, una donna il cui marito è morto in un tragico incidente avvenuto su un battello turistico, che una volta scoperta la frode assicurativa che non le permetterà di ottenere un equo risarcimento per la sua perdita, decide di indagare.
Panama Papers è un procedural comedy frizzante e leggero, che si pone a tutti gli effetti come un film su una vicenda, più che su delle persone in essa coinvolte, come un contenitore di eventi e situazioni che si sovrappongono e si intrecciano tra loro, fino a rivelare la trama, l’intreccio che le lega, come tante pennellate prese in analisi singolarmente che finiscono per comporre un quadro.  L’assunto dei procedural di stampo classico suggerisce di “seguire i soldi”, Panama Papers sceglie di farlo a modo suo, in maniera non proprio lineare, ma neanche puramente episodica, verrebbe quasi da dire che lo faccia “per associazione”, rendendolo un processo ideologico. Questa struttura giocosa dona al film una certa freschezza, ma se la prima metà funziona egregiamente, anche grazie ad una massiccia quantità di grottesca ironia, la seconda parte finisce per diventare troppo digressiva, perdendo inevitabilmente un po’ di ritmo.

Gary Oldman e Antonio Banderas, nei panni degli avvocati Jürgen Mossack e Ramón Fonseca, hanno un ruolo fondamentale all’interno del processo narrativo, essendo non solo personaggi all’interno della storia, ma essendone anche i narratori, almeno apparentemente. Sono il punto di contatto tra i vari piani narrativi paralleli che compongono il film, sono lo strumento che permette al film di alternare con efficacia passato e presente e di puntare lo sguardo anche al di fuori della semplice ricostruzione, ovvero di fungere da commentario. Burns e Soderbergh utilizzano i due personaggi come tramite narrativo per creare un rapporto diretto con il pubblico, ma anche per creare uno “spazio” all’interno del film che diventa luogo di stravolgimenti nel divertente finale metacinematografico, che rivela un colpo di scena molto divertente e riflette, pur sempre scherzosamente, sul senso dell’intera operazione.
In definitiva Panama Papers è un film dal tono leggero, costruito in modo intelligente, nel quale ogni singola inquadratura grida il nome di Soderbergh a pieni polmoni. È un film piacevolissimo che vola via in un baleno, che è pienamente consapevole del suo essere commedia e non ha alcuna pretesa ulteriore a quella di narrare (a suo modo, questo è proprio un film sul gusto della narrazione), se non quella di ricordarci perché raccontiamo questo tipo di storie. Ottime, poi, le interpretazioni dell’intero cast che oltre ad una Streep in piena forma e a al frizzante e irriverente duo  formato da Oldman e Banderas è composto anche da Sharon Stone, Melissa Rauch, David Schwimmer, James Cromwell, Matthias Schoenaerts, Alex Pettyfer, Robert Patrick, Will Forte e Jeffrey Wright, in ruoli alle volte piccolissimi ma piacevolmente inaspettati. 
VOTO: 7,5/10


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