Di Daniele Ambrosini
Freaks Out, l’attesissima opera seconda di Gabriele Mainetti, è probabilmente il film italiano più atteso della stagione, un film di genere frutto di uno sforzo produttivo inusuale per il nostro cinema che non poteva che generare curiosità sia tra gli addetti ai lavori che nel pubblico in attesa del primo grande blockbuster italiano. Chi si aspettava qualcosa di grande e spettacolare, tecnicamente impressionante e visivamente piacevole non rimarrà deluso, ma chiunque vada in cerca di un’idea originale e di un po’ di sostanza farebbe meglio a guardare da un’altra parte.
Su sua stessa ammissione, Mainetti e il suo sceneggiatore Nicola Guaglianone avrebbero deciso di “rifare” in Freaks Out tutti i loro film preferiti in uno solo. E così nasce un film che ad un pitch potrebbe tranquillamente essere descritto come “Freaks incontra I predatori dell’arca perduta, con un pizzico di Tarantino”. Quello di Mainetti è, infatti, un vero e proprio pastiche, uno di quelli che sembra riportarci al dibattito sulla pratica sorto negli anni ’90: si tratta di uno processo di fantastica rivisitazione secondo prospettive personali o di mero riciclo delle pratiche e dei modelli del passato? Se le prospettive sul postmoderno e la pratica del pastiche sono diventate più generose nel tempo, riconoscendone la forza espressiva, c’è da dire che non sempre questo riutilizzo dei modelli porta ad una reinterpretazione personale, sentita, ed originale.
Lo chiamavano Jeeg Robot era un progetto ambizioso, con una forte componente spettacolare, ma in fin dei conti era un film piccolino per la sua portata, era un film intimo su un personaggio straordinario, Freaks Out è l’opposto: un film enorme e dispersivo. Gli effetti speciali e la stranezza, la bizzarria del suo plot sono l’attrattiva principale, quella messa avanti sempre e comunque, mentre i suoi personaggi sono un po’ più sullo sfondo. Manca evidentemente un po’ di cuore in questo enorme giocattolone tecnicamente lodevole, ed è un peccato.
La volontà di mostrare sempre e comunque, di inserire questo o quest’altro effetto, di stupire, tra l’altro finiscono per saturare un film in cui lo straordinario è così tanto ordinario, da non sorprendere neanche più. Anche qui, la scala ridotta di Jeeg Robot permetteva di mettere gli accenti giusti, di rendere davvero speciale ciò che doveva essere speciale, di far avvertire lo straordinario come tale.
A fronte di un antagonista interessante e di una protagonista con un background prevedibile, ma adeguatamente sviluppato, ci sono poi personaggi con storyline appena abbozzate, laddove non proprio inesistenti, e i rapporti tra loro sono macchinosi, poco naturali, o semplicemente dati per scontati. Alle volte il poco tempo disponibile per creare empatia con questo gruppo di Freaks porta gli autori a calcare la mano con l’ironia, a volte riuscendo, altre volte forzando un po’ troppo la mano.
Lo spettacolo c’è, il coraggio a livello produttivo pure, peccato che ne manchi in po’ in scrittura. Il classico viaggio dell’eroe riproposto con poche variazioni e rimettendo in campo elementi già esplorati nel cinema d’intrattenimento americano non sono sufficienti per salvare questa operazione dalle grandi ambizioni, ma dalle idee poco chiare. Non è facile capire a chi sia effettivamente indirizzato questo film e se, al di là del coraggio dimostrato in fase produttiva, esista effettivamente un pubblico abbastanza ampio per un progetto di questa portata che, spiace ammetterlo, ha pochissima attrattiva per il mercato internazionale, dove progetti simili (soprattutto provenienti da mercati esterni, si guardi USA e UK) non sono poi così inusuali.
VOTO: 5/10