Venezia 79: White Noise, la recensione del film di apertura

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Di Massimo Vozza

La selezione ufficiale della 79° Mostra del Cinema di Venezia si è aperta con uno dei progetti più curiosi e rischiosi dell’anno: il regista e sceneggiatore candidato all’Oscar Noah Baumbach ha deciso, supportato da Netflix per il terzo film consecutivo, di provare ad adattare un romanzo a dir poco ostico, ossia Rumore bianco di Don DeLillo, e il risultato non ha deluso le aspettative.

L’opera maggiormente costosa e ambiziosa del cineasta newyorkese è riuscita a consolidare definitivamente lo status di autore di Baumbach soprattutto perché ha dimostrato di avere le capacità di portare sul suo terreno il romanzo di uno scrittore con il quale ha poco da spartire, estrapolando e poi sviscerando principalmente quei temi e discorsi ricorrenti nella sua filmografia senza annullare o stravolgere il senso e la storia di Rumore bianco: è in particolare il tono e la commistione di generi la vera e propria impronta riconoscibile di questo regista-sceneggiatore, capace di provocare risate e commozione, anche contemporaneamente, ma spiazzando stavolta lo spettatore nel proporre improvvisamente momenti di suspense, inediti nel suo cinema.

Siamo quindi distanti da Storia di un matrimonio, il titolo presentato l’ultima volta a Venezia, anche in vista dei prossimi Academy Awards, nonostante la famiglia (che qui diviene il nucleo della disinformazione moderna) e il rapporto di coppia rimangano assolutamente importanti. Il discorso però va ben oltre: Rumore bianco è un elogio alla vita e alla morte, un film estremamente esistenziale dove il corso degli eventi esterni conta poco e niente rispetto al percorso e la presa di coscienza interiori di Jack e del suo nucleo famigliare.

Grazie anche a un investimento produttivo non da poco, Baumbach ha ricostruito l’immaginario anni ‘80 statunitense perfettamente per poi poter affrontare, in fase di scrittura (esattamente come fa il romanzo), la decostruzione del sogno americano, in quel decennio già un lontano ricordo, abbandonato agli anni ‘50 e ‘60.

Argomento che di certo parla anche all’oggi ma non quanto quello centrale nella seconda parte: la nuvola tossica che minaccia il bucolico college nel quale si svolge la vicenda non può non far tornare alla mente la pandemia mondiale da poco vissuta (e che in parte stiamo ancora vivendo), compresa la fascinazione che i tragici eventi reali trasmessi dai canali mediatici hanno sul grande pubblico. E sono proprio i media, insieme al consumismo, le altre tematiche importanti nella vicenda, al punto da dare titolo all’opera.

Adam Driver nel ruolo protagonista ci regala un’altra interpretazione degna di nota, capace di andare oltre il cambiamento fisico e il trucco richiesti per poter recitare nel ruolo di Jack, e la sua chimica con un’incredibile Greta Gerwig nel ruolo di Babette (che torna a recitare per Noah dai tempi di Mistress America) è innegabile. Tutto il cast però merita un plauso, dai più giovani ai meno.

Ad accompagnare la recitazione anche la colonna sonora di Danny Elfman e un’inedita canzone dei LSD Soundsystem che, in chiusura, rimette in moto la coreografia della vita nonostante l’incombere perenne della morte.

Rumore bianco debutta su Netflix a partire dal 30 dicembre

VOTO: ★★★★


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