Di Giuseppe Fadda
Il biopic su Dick Cheney diretto da Adam McKay si apre con una didascalia che recita pressappoco queste parole: “Questa è una storia vera. Per quanto possa esserlo, considerando che Dick Cheney è riconosciuto come una delle persone più riservate della storia. Ma abbiamo fatto del nostro fottuto meglio”. Questo sembra voler suggerire due cose: in primo luogo, che il regista ha deciso di optare per un registro volutamente irriverente, ipotesi che viene confermata fin dalle scene iniziali; in secondo luogo, è che il film si è preso la licenza di romanzare aspetti della vita privata di Cheney in virtù di una rappresentazione più accattivante. Ma questo, sorprendentemente, non è vero: il film ripercorre le tappe biografiche di Cheney senza neanche cercare di scalfire la superficie del personaggio che, fino alla fine, rimane poco approfondito.
Non si può negare che McKay sia un’autore dotato di una visione personale e particolare e non sorprende il fatto che in molti trovino il suo stile brillante. Ma spesso, e in Vice – L’uomo nell’ombra più che in ogni altro film, la sua originalità stilistica nasconde in realtà una sconfortante vuotezza di contenuto: una volta realizzato ciò, anche il suo approccio stilistico (sia dal punto di vista della regia che della sceneggiatura) diventa ridondante, compiaciuto e persino irritante. Come nel suo film precedente La grande scommessa, sono numerosi i momenti in cui i personaggi rompono la quarta parete e altrettanti sono cammei metacinematografici in cui attori famosi spiegano e semplificano per il pubblico dei concetti elaborati (nel caso de La grande scommessa si trattava di alta finanza, nel caso di Vice – L’uomo nell’ombra di politica): per quanto occasionalmente divertenti, si tratta di virtuosismi esasperati che aggiungono ben poco alla storia e al suo contenuto ideologico politico. L’ironica voce narrante di Jesse Plemons, che interpreta un personaggio il cui legame con Cheney viene chiarito solo verso la fine, è un’espediente narrativo che non funziona del tutto e che, anzi, risulta spesso didascalico e meccanicamente espositivo.
Questi problemi sarebbero stati, almeno in parte, trascurabili se almeno il film avesse tentato di restituirci un ritratto complesso e sfaccettato del personaggio centrale. Ma così non è. Il film ci mostra l’evoluzione della carriera di Cheney: da operaio elettrico del rurale Wyoming, sotto la guida dello spregiudicato Donald Rumsfeld diventò Capo dello Staff della Casa Bianca sotto Ford e, dopo cinque mandati nel Congresso, Segretario alla Difesa per George H. W. Bush. Nel 2000, rinunciò alla sua posizione di C.E.O. di Halliburton per ricoprire il ruolo di vicepresidente di George W. Bush, con un implicito accordo che gli avrebbe permesso di esercitare un controllo quasi totale. Ecco la genesi di quello che è noto come “il vicepresidente più influente della storia d’America”. Ma se il resoconto storico del film è ineccepibile, il ritratto di Cheney risulta fin troppo superficiale e non arriviamo mai a comprendere l’umanità di questo enigmatico, ermetico personaggio. L’interpretazione di Christian Bale è senza dubbio notevole e degna di riconoscimenti: al di là della sua straordinaria trasformazione fisica e vocale, l’attore riesce a catturare la dicotomia di Cheney tra affettuoso padre di famiglia e astuto, moralmente discutibile burattinaio politico. Ma persino la sua ammirevole performance è penalizzata da una sceneggiatura che predilige battute taglienti e risposte lampo ad un’indagine più profonda dell’uomo.
Il ricco cast di comprimari, d’altro canto, è sprecato e i personaggi di contorno risultano fin troppo abbozzati. Amy Adams, nel ruolo della moglie Lynne, trasmette con efficacia la tenacia, l’ambizione e la volontà di ferro che rendono questa donna la compagna perfetta per Cheney: ma malgrado un’inizio promettente, il suo personaggio perde di importanza man mano che il film procede e non viene mai sfruttato al pieno delle sue potenzialità. Sam Rockwell ritrae George W. Bush come un uomo tanto egocentrico quanto inesperto e incapace che viene facilmente manipolato dagli uomini intorno a lui, Cheney in primis: è un approccio interessante, ma McKay non gli permette mai di diventare niente di più che una macchietta. Steve Carell, nei panni di Rumsfeld, scade spesso nell’eccesso e regala una performance in larga misura caricaturale.
Se il film non è un completo fallimento, è perché nella seconda metà McKay riesce a offrire un ritratto tagliente e critico delle manovre del governo Bush in seguito all’attentato dell’11 settembre. Ci sono momenti indubbiamente efficaci in cui il regista mette in luce, con una vena contemporaneamente brillante e spietata, i crimini commessi per opera del governo americano e le loro tragiche conseguenze che perdurano ancora oggi. E la storyline incentrata su Mary (Alison Pill), figlia di Cheney, la cui omosessualità verrà strumentalizzata dagli avversari politici del padre e della sorella Liz (Lily Rabe), è sorprendentemente emozionante, forse l’unico elemento del film a potersi definire tale. Nel complesso, tuttavia, i pregi del film vengono messi in ombra dallo stile del film così esasperato ed ingombrante. Nei suoi momenti migliori, Vice – L’uomo nell’ombra è un film divertente e politicamente impegnato. Ma per la maggior parte è esattamente come il suo monologo finale: retoricamente elaborato ma contenutisticamente vuoto.
Vice – L’uomo nell’ombra sarà distribuito nelle sale italiane il 3 gennaio 2019.
VOTO: 5.5/10