Di Simone Fabriziani
Re Magnifico e sua moglie, la regina Amaya, fondano il regno di Rosas su un’isola del Mar Mediterraneo. Avendo studiato stregoneria, Magnifico è in grado di esaudire i desideri più grandi dei suoi sudditi; ognuno di loro rinuncia al ricordo dei propri desideri per essere suggellato e protetto dal re finché non potrà esaudirli. Una volta al mese, come evento cerimoniale, Magnifico sceglie un desiderio da esaudire. La diciassettenne Asha si prepara a un colloquio per il lavoro di apprendista di Magnifico il giorno del centesimo compleanno di suo nonno Sabino, sperando che Magnifico esaudisca il desiderio di Sabino di ispirare le persone. Non sarà così. Da giovedì 21 dicembre finalmente nelle sale italiane Wish, 62° classico d’animazione Disney che celebra lo storico centenario dalla fondazione della leggendaria casa di produzione statunitense.
Dirigono in tandem Chris Buck (Tarzan, Frozen) e Fawn Veerasunthorn (Raya e l’ultimo drago) da una sceneggiatura originale di Jennifer Lee ed Allison Moore; un team produttivo che dà alla luce il lungometraggio di cui Walt Disney Pictures forse aveva bisogno da tempo. Perché il tanto agognato nuovo Rinascimento della Casa di Topolino sognato dieci anni fa con il successo inaspettato e strepitoso di Frozen non si è di fatto concretizzato, lasciando briciole ed una vasta gamma di insuccessi di pubblico e di critica, incapaci di intercettare una audicence di piccoli spettatori in costante e fluido cambiamento. Un’inversione di rotta praticamente ostinata e contraria a quella delle sensibilità contemporanee (anche narrative e nella costruzione delle psicologie dei propri personaggi) quella di Wish, che mette momentaneamente da parte aperture “woke” ed elementi di urgenza socio-culturale per regalare ad un sostanziale pubblico di nostalgici un film-evento che racchiude e sintetizza cliché e prodromi di un’eredita che dura praticamente da 100 anni.
Ecco quindi che Wish sbalordisce principalmente per la tecnica d’animazione utilizzata per creare il regno fatato di Rosas e i suoi protagonisti, mescolando con sapienza e premura fondali in animazione tradizionale di fascino incomparabile, a personaggi digitali. Il risultato è tanto suggestivo quanto funzionale per le ambizioni del lungometraggio di Buck e Veerasunthorn, che rifiuta le sofisticherie contenutistiche degli ultimi suoi insuccessi (su tutti, il flop di Strange World) per allestire uno spettacolo cinematografico di solo apparente derivazione passata. Perché a dispetto delle maggioritarie critiche negative ricevute da Wish anche e soprattutto oltreoceano (dove ha fallito miseramente al box-office casalingo), il 62° classico d’animazione Disney fa della sua a volte smagliante semplicità e linearità narrativa il suo obiettivo principe.
Inutile inveire contro un lungometraggio animato destinato a festeggiare i 100 anni dalla nascita del primo studio d’animazione di Walt Disney enfatizzandone la prevedibilità narratologica e il carente scavo psicologico dei suoi protagonisti. Perché Wish, pienamente consapevole del suo target e delle mire contenutistiche di cui si fa carico, porta sul grande schermo una favola iper-classica dove ogni singolo elemento (visivo e narrativo) non viene lasciato al caso, ma anzi valorizzato a dovere. Un film ostinatamente anacronistico e fuori moda in tempi attuali legittimamente carichi di maggiore consapevolezza sociale e culturale. Ma di questa continua tramutazione di usi e costumi, non facciamone però carico su Wish, che svolge invece egregiamente la sua funzione di film-festa per le generazioni passate e (si spera) future.
Wish arriva nelle sale italiane a partire da giovedì 21 dicembre con Walt Disney Pictures.
VOTO: ★★★★