American Horror Story: Cult 7×02 “Don’t Be Afraid of the Dark” – La recensione

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Di Gabriele La Spina

Se c’è una cosa che il recente filone di art house horror, con pellicole come Babadook, It Follows e The Witch, ha dimostrato, è che la paura deve essere indotta nello spettatore attraverso un’atmosfera suggestiva. Al bando il jump scare, lo splatter e le figure grottesche. Paradossale pensare che una serie come American Horror Story, la cui reputazione la etichetta come un pastiche di stereotipi del genere, possa rientrare in un canone simile, attualizzandosi stilisticamente e ma al contempo sul piano narrativo, con un racconto politico e inaspettatamente allegorico.

Perché la nuova consapevolezza degli autori diventa l’incubo della contemporaneità, e da Horror la serie diventa più American, guadagnando in incisività.

Mentre nelle precedenti stagioni le storyline si disperdevano tra i molteplici protagonisti, e solo in pochi casi tutto riusciva a quadrare egregiamente, qui seguiamo le storie di due soli personaggi, Ally e Kai, come nel sistema politico americano a due partiti: una democratica, l’altro repubblicano, una sostenitrice di Hilary Clinton devastata dalla vittoria di Donald Trump, l’altro esaltatore di quest’ultimo, tanto da ritenerlo icona di un movimento al pari di personaggi che hanno influito sulla storia, positivamente e negativamente, come Andy Warhol e Charles Manson, che vedremo rappresentati in dei flashback negli episodi successivi. E se Kai usufruisce del potere dei media per la costruzione di un piano inizialmente oscuro, Ally vive il terrore e il tormento della persecuzione di angoscianti visioni di teppisti, terroristi, in pieno stile La notte del giudizio, nel confine tra illusione e il dubbio della realtà, rafforzando l’idea di paranoia che caratterizza la stagione. Perché ogni personaggio di Cult rappresenta finora uno specifico americano tipo di oggi, e al set di burberi retrogradi, pseudo anarchici, istigatori alla violenza e democratici borghesi allarmisti, si aggiungono la sinistra coppia di vicini interpreti da Billy Eichner e Leslie Grossman, rappresentati della classe media bianca, pro armi, membri del fan club di Nicole Kidman (“L’hai vista in Big Little Lies? È sublime” – afferma Eichner in una scena), dai biasimabili contratti prematrimoniali e perciò altamente irritante.

Assistiamo così a un continuo crescendo, lento e oculato. Sarah Paulson interpreta forse uno dei personaggi più complessi finora, una donna affetta da un ammasso di fobie (l’altamente simbolica avversione per i buchi, fino alla primordiale per i clown), contribuendo alla continua aura di tensione palpabile in ogni episodio finora. Numerosi interrogativi sollevati già nei primi momenti fanno immaginare un vero e proprio complotto, e gli sguardi colpevoli di ogni personaggio dello sfondo lasciano presagire che nessun elemento è un caso in Cult, tanto quanto poteva indurre la messa in scena di Rosemary’s Baby, classico del genere di Roman Polanski, dove Mia Farrow viveva un incubo non dissimile, la serie non ha perso infatti il suo carattere citazionista, omaggiando oltre che Polanski, anche David Cronenberg (il pasto sanguinante servito ad Ally nel primo episodio) e Stanley Kubrick (i due uomini mascherati impegnati in un coito, come in Shining). Mentre Kai, un Evan Peters estremamente in parte, fomenta i media e con uno stratagemma si introduce alla politica, nel ristorante di Ally si apre un sipario già visto nella vita americana di tutti i giorni, dove il clima di allarmismo ha fatto sì che il paese regredisse nella capacità di accettazione, in questo caso nei confronti degli stranieri, sempre più minaccia fantasma.

Confermando la sua fortissima indole satirica e psicologica, e alternando con discrezione elementi creepy nonché erotici tipici dei canoni della serie (scaturiti dal delizioso, quanto letale, personaggio di Billie Lourd), con il suo secondo episodio Cult si conclude non con un semplice omicidio accidentale, bensì con l’azione che aprirà realmente le danze di questa stagione, riflettendo casi di cronaca americana come quello di George Zimmerman (tra gli ultimi casi giuridici più eclatanti negli USA per omicidio colposo a seguito di una presunta effrazione, ai danni del giovane afroamericano Trayvon Martin), e strappando i suoi personaggi dalla loro comfort zone, fuori dalle pareti di casa, fomentando l’attesa di un faccia a faccia, e di una presa di coraggio della protagonista; quello stesso coraggio che con questa settima stagione hanno dimostrato gli autori di American Horror Story (Ryan Murphy e Brad Fulchuk in primis), noti per la capacità di saper rischiare sempre. E se il fil rouge non sarà perduto in avanti, Cult potrebbe affiancare Asylum e Murder House, tra le migliori stagioni della serie.

VOTO: 7.5/10

Se sei un fan della serie visita le pagine Facebook di American Horror Story ITALIACitazioni improbabili di American Horror Story.

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