I 20 migliori film italiani degli ultimi dieci anni

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Di Redazione

Qualcuno ha detto che il cinema italiano è ormai andato perso dopo la scomparsa di miti della settima arte come Visconti, Fellini e Antonioni. Ma si sbagliava. Oggi il cinema italiano non è soltanto quello delle commedie, quasi quanto il mastodontico apparato hollywoodiano, anche il nostro possiede una distinguibile variegatura di generi, seppur più contenuta. E in questi anni sono numerosi gli autori del nostro cinema che hanno issato la bandiera tricolore fuori dal nostro territorio.

Con cifre stilistiche ben precise e uno sguardo autoriale importante, registi come Paolo Sorrentino hanno raggiunto una fama in passato inimmaginabile, conquistando anche quell’Oscar che l’Italia non portava a casa da decenni. E non è il solo: Luca Guadagnino sta diventando pian piano uno dei registi più apprezzati negli USA con il suo Chiamami con il tuo nome, e forse più in sordina, anche Paolo Virzì sta muovendo i suoi primi passi. Ma oltre i riconoscimenti all’estero, la nostra stessa patria è stata fonte di ispirazione per molti e, c’è da ammettere con una cadenza forse più saltuaria, ha sfornato altissimi esempi di cinema, senza nulla da invidiare all’indie americano. 
Abbiamo selezionato i più importanti esempi di eccellenza cinematografica in lingua italiana dell’ultimo decennio. Storie che riflettono il nostro paese, ma allo stesso tempo racconti di carattere universale; interpreti che meriterebbero più attenzione in pellicole che faranno parte della storia del nostro cinema.

Tilda Swinton ed Edoardo Gabbriellini in una scena di “Io sono l’amore”

Gabriele La Spina

Io sono l’amore (2009) di Luca Guadagnino

Il moderno ritratto familiare di Guadagnino nell’alta borghesia industriale lombarda, è un esempio di netta forma estetica nel nuovo cinema italiano. Ci muoviamo tra i corridoi di villa Recchi, tra avvicendamenti, strategie familiari e consolidamenti; assistiamo all’amore improbabile tra Emma, un’aliena e alienata Tilda Swinton, e Antonio un cuoco che si ritrova per caso ad avere a che fare con la ricca famiglia. Loro due sono due esseri che non appartengono al presente, estranei a quelle consuetudini sociali, il cui legame li rimette in contatto con la realtà, la natura e la passione, quella spenta e decaduta nella famiglia Recchi. Ogni fotogramma di Guadagnino è intrinseco di formalità, muovendosi tra colori e spazi invisibili. Paragonato al cinema di Visconti, Matarazzo e Fassbinder, il regista si impone così come autore italiano, destinato a fare breccia oltre oceano. 

La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino

Ispirato in parte a 8½ di Federico Fellini (e a molti elementi del cinema del regista), Sorrentino raggiunge la fama mondiale e riporta per certi versi in auge il nome del cinema italiano nel mondo. Con una critica asprissima, sui generis e a tratti surreale, della cultura italiana e dei culti più in generale, che siano religiosi, del denaro, dell’arte. Dopo “L’apparato umano”, l’unico romanzo che ha pubblicato da giovane e che gli ha regalato la notorietà, Jep Gambardella (Toni Servillo) non ha scritto più nulla. È diventato però un giornalista e frequenta spesso l’alta società romana. La sua vita è un susseguirsi di incontri, appuntamenti e celebrazioni eccentriche che lo rendono testimone della crisi della società. Incontri, personaggi e maschere mettono in scena la rappresentazione del nulla, con una vacua luminosità e intensità della scena senza eguali. La più imponente impresa di Sorrentino, in bilico tra eccesso e vuoto.

Reality (2012) di Matteo Garrone

A seguito del successo di Gomorra, Garrone cambia totalmente registro e realizza una delle più divertenti satire del nostro cinema recente. Seguiamo le vicende di Luciano, un pescivendolo napoletano che ambisce alla fama, il cui più grande desiderio è quello di entrare nella casa del Grande Fratello. Un narcisismo dilaniante il suo che lo porterà a un’autodistruzione inesorabile. L’ossessione e la perdita del senso della realtà fanno da padrone a Luciano che finisce per perdere anche la sua famiglia. Quello realizzato da Garrone, è un personaggio al limite del tragicomico, simbolo di una società che vive anch’essa al limite del paradosso. Il regista racconta infatti un’altra faccia dell’Italia, quella dei sognatori in vani, bramanti di un successo effimero poiché inesistente, uno dei tanti influenzati dallo stile felliniano, ma con una vena verista in più degli altri. 



La pazza gioia (2016) di Paolo Virzì

Quelle che potremmo definire come le ragazze interrotte di Virzì, la musa Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, vestono i panni di due donne ricoverante in un istituto mentale, poi fuggitive, in realtà alla ricerca non di un equilibrio, bensì della loro verità. Road movie a tratti chiassoso, versione insana di Thelma & Louise, quello di Virzì è soprattutto un racconto dalla delicatezza inusuale. La performance di Valeria Bruni Tedeschi, non solo la conferma come la migliore interprete italiana attualmente attiva nel nostro panorama, ma è il cuore pulsante della pellicola, con nulla da invidiare alle attrici oltreoceano. Ci caliamo così nei panni di Beatrice e Donatella, soffriamo il loro disturbo e non possiamo fare a meno di ridere, di una comicità malinconica e a volte rincuorante.

Lo spazio bianco (2009) di Francesca Comencini

La Comencini orchestra con indiscrezione l’attesa angosciante e inesorabile di una donna. La quarantenne Maria, insegnante napoletana, partorisce una bambina al sesto mese di gravidanza. La piccola viene ricoverata in terapia intensiva e Maria deve limitarsi a spiare i primi giorni di vita della figlia attraverso l’oblò dell’incubatrice. Interpretata da una posata Margherita Buy, forse nella sua interpretazione più centrata e audace, la protagonista e lo spettatore a seguito si ritrovano in un limbo, intangibile, a volte surreale, sensitivo e vacuo. Una situazione in cui molti di noi possono riconoscersi, come pesci fuor d’acqua in un ambiente ospedaliero, in un momento di stasi soffocante. Napoli fa da cornice in una pellicola ricchissima di spunti, dallo sguardo riconoscibilmente femminile.



Una scena da “A Ciambra”, di Jonas Carpignano

Daniele Ambrosini

Indivisibili (2016) di Edoardo De Angelis
Il terzo film di Edoardo De Angelis è sicuramente una delle vette più alte raggiunte dal cinema nazionale in tempi recenti; la storia delle gemelle siamesi Dasy e Viola colpisce al cuore e allo stomaco, è una girandola emotiva sorretta da una scrittura ordinata e funzionale. Unite da un legame che credevano indissolubile, le due ragazze sono ormai cresciute ed iniziano a farsi domande, a volere la propria indipendenza ma allo stesso tempo sono spaventate ed hanno bisogno l’una dell’altra per affrontare la sfida più grande della loro vita: dividersi. Indivisibili è il film di formazione che mancava nel nostro panorama cinematografico, un coming of age drammatico pieno di sfumature, attento alla caratterizzazione dei suoi protagonisti e fortemente empatico. Una menzione d’onore va a Angela e Marianna Fontana, basterebbe la loro presenza a rendere il film meritevole di una visione. 
L’uomo che verrà (2009) di Giorgio Diritti
Nei soli tre film che ha diretto, Giorgio diritti ha dimostrato una sensibilità autoriale tale che non avremmo problemi a definirlo come uno dei migliori registi italiani degli ultimi anni, nonostante sia ampiamente ed ingiustamente sottovalutato. Con L’uomo che verrà Diritti realizza la sua opera migliore, nonché uno dei migliori del panorama italiano recente. Vincitore del David di Donatello come miglior film, L’uomo che verrà racconta la lotta partigiana emiliana durante la seconda guerra mondiale seguendo la storia di una famiglia contadina poco prima della strage di Marzabotto. Attraverso gli occhi della sua piccola protagonista (una sorprendente Greta Zuccheri Montanari) Diritti racconta gli orrori della guerra, ed in lei e nel fratellino ritrova la speranza per un futuro migliore. L’uomo che verrà è un film che attraverso una accurata ricostruzione (il cui elemento cardine è il dialetto emiliano antico) riesce a creare un racconto commovente ed appassionante che difficilmente lascia indifferenti. 
Non essere cattivo (2015) di Claudio Caligari
L’opera testamento di Claudio Caligari, è un film intenso e frenetico sorretto da due magnifici protagonisti. Quello di Caligari è un racconto di frontiera, sporco e senza mezze misure che racconta con schiettezza un ambiente degradato dove tra alcol e droga regna l’anarchia più totale e dove la speranza per un futuro migliore continua ad insidiarsi nella mente dei protagonisti, che lo inseguono nonostante esso appaia sempre più irraggiungibile. Luca Marinelli e Alessandro Borghi interpretano Cesare e Vittorio, migliori amici e uomini allo sbando in cerca di equilibrio, che sono il vero cuore di un film emotivamente potente. 
Cesare deve morire (2012) di Vittorio Taviani e Paolo Taviani
La storia immortale del Giulio Cesare di Shakespeare risplende di luce nuova grazie ai Fratelli Taviani che con il loro film vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino 2012 rielaborano la famosa opera del bardo per adattarla ad un contesto del tutto nuovo, quello carcerario. Interamente interpretato da detenuti nel carcere di Rebibbia nei più disparati dialetti italiani per rendere il tutto più credibile e viscerale, Cesare deve morire restituisce appieno il forte senso di catarsi di cui è intrisa tutta l’opera originale. È metacinema quello dei Taviani che impostano il film come un’alternanza di momenti di ricostruzione dell’opera, più prettamente narrativi, ad altri che documentano la preparazione del testo teatrale, riuscendo, tramite una nuova ambientazione ed un approccio narrativo originale, non solo nell’impresa di far rivivere un grande classico ma anche in quella di caricarlo di significati nuovi e moderni. 
A Ciambra (2017) di Jonas Carpignano
In un anno in cui il nostro cinema è riuscito a produrre davvero pochissimi film rilevanti, A Ciambra è un fulmine a ciel sereno. Non solo è il miglior titolo italiano di questo 2017, ma si piazza di diritto tra i migliori di questa decade. Interamente sorretto dalla giovane rivelazione Pio Amato, A Ciambra racconta la vita di un adolescente nella poverissima comunità rom di Gioia Tauro, in Calabria; la perdita dell’innocenza e la progressiva assuefazione alla criminalità non corrispondono mai ad una reale perdita di umanità, nonostante l’ambiente sembri imporla come condizione di sopravvivenza. Il racconto di Carpignano non giudica i propri personaggi, il film scorre per amore della narrazione e della veridicità e da spaccato di vita grezzo si fa indagine sul senso di appartenenza e di responsabilità morale, lì dove di morale non sembra essercene. Dobbiamo essere felici che un’opera così complessa, stratificata e tecnicamente eccezionale ci rappresenterà ai prossimi Oscar, perché il rischio di presentarsi con un film inadatto a sostenere la pesante competizione di questa annata cinematografica era piuttosto alto.

Nanni Moretti e Michel Piccoli in una scena di “Habemus Papam”

Edoardo Intonti

Il capitale umano (2014) di Paolo Virzì
Vincitore di numerosi premi, tra cui 7 David di Donatello, tra cui miglior  film e sceneggiatura, la pellicola si presenta come un thriller d’autore (liberamente ispirato al romanzo di Stephen Amidon) che per poco non entrò nella cinquina finalista per l’Oscar al film straniero. L’accoglienza fu eccellente sia in patria che all’estero Valeria Bruni Tedeschi vinse  al Tribeca Film Festival il premio per miglior attrice. Un tentativo ben riuscito di affrontare temi diversi dai soliti progetti connazionali, mostrando con umorismo, ma senza populismo, l’infelicità dei ricchi e dei meno ricchi, in un epoca mai così legata al denaro. Un bel biglietto da visita per il regista Paolo Virzì, che probabilmente è con questo progetto è riuscito a conquistarsi il diritto per il suo progetto in lingua inglese The Leisure Seeker,.
Il papà di Giovanna (2008) di Pupi Avati
Il regista Bolognese segna l’inizio della fortunata carriera di Alba Rohrwacher, esordiente, e vincitrice comunque del David di Donatello con questa pellicola, che inizialmente non ebbe il successo e l’approvazione della stampa. Nonostante la regia possa essere valutata eccessivamente “classica” e nostalgica, rivalutato a distanza d’anni, si tratta comunque di una pellicola ottimamente scritta, forse una delle migliori di Avati in ambito drammatico, giocata sulla cronaca della famiglia Casali e che  vede protagonista assoluta la relazione struggente tra i tre membri del nucleo familiare, in particolare tra padre e figlia  e le loro peripezie per rimanere insieme durante il conflitto mondiale. Un film sull’amore: quello paterno, immenso e potente; quello materno, scarno e conflittuale; e quello matrimoniale, assente.
Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi
Quando il documentario, perché di quello si tratta, vinse l’orso d’oro al festival di Berlino sotto la giuria della storica Meryl Streep,  fu un’ulteriore conferma dell’importanza, nono solo cinematografica ma anche sociale/morale di questa opera, arrivata fino alla nomination all’Oscar (e derubato della statuetta dalla ben più insipido O.J: Made in America). Alternando un racconto fittizio, ma verosimile, incredibilmente ricco di significati simbolici e scene reali della vita dei migranti all’Isola di Lampedusa, il film è la testimonianza del regista del fenomeno sociale che da anni affligge gran parte dell’Europa mediterranea a e non solo. Tematica tristemente diventata di tendenza per ovvie ragioni negli ultimi tempi, Rosi dedicando un minutaggio minore di scene “crude” o da tg, mostrando il lato nascosto della questione, dell’isola, dei suoi abitanti e in particolare del dottor Pietro Bartolo. Un documentario con una maggior anima e trasporto rispetto al tecnico analogo del regista Ai Weiwei e del suo Human Flow, che nel tentativo di toccare tutti i gruppi migranti finisce con il non approfondirne nessuno.
Habemus Papam (2011) di Nanni Moretti
Nell’anno di The Young Pope di Sorrentino,  così pieno di dialoghi sublimi e innaturali, riflessioni sul potere, l’anima e la morale (scorci di una semi divinità del personaggio di Jude Law), ecco che pare utile tornare alla visione più umana e terrena del papa interpretato da Michel Piccoli, simile sotto molti aspetti alla personaggio di Lenny Belardo, ma avvolto nel classico alone vagamente comico dei personaggi di Moretti. Sebbene il paragone venga naturale con la serie televisiva di Sorrentino, bisogna tenere in considerazione l’atteggiamento con la quale viene proposta la riflessione sul papato, che se dal lato del regista napoletano appare vagamente paternalistica e con la lodevole capacità di generare un dialogo su temi importanti, dall’altro si tratta di raccontare semplicemente una storia di umanità. Un uomo che entra in crisi spirituale, non iconico e anzi incredibilmente comune, e la sua fuga dalle responsabilità, cercando di rivivere brevemente il proprio sogno di giovinezza. Moretti e Piccolo poi mettono in scena il torneo di pallavolo dei cardinali che è poi qualcosa di sublime.
Terraferma (2011) di Emanuele Crialese
Fuoriclasse italiano, con all’attivo però solo quattro lungometraggi (fondamentale da recuperare Nuovomondo del 2005), il regista presenta una delle numerose pellicole che sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione, dal punto di vista del personaggio del sempre presente e bravo Filippo Pucillo. In questo caso,  il punto è la negazione dell’ospitalità e dell’aiuto, tematica attualissima e trattata da Crialese già sette anni fa. Il regista, romano ma formatosi all’estero, dimostra nuovamente il legame con la Sicilia, realizzando uno spaccato sulla vita dell’isola, divisa tra il turismo selvaggio e la lotta per la sopravvivenza di una giovane donna e del suo bambino. Quella che forse non sarà la storia più originale del mondo in termini di buoni sentimenti sul tema dell’immigrazione, dimostra invece come il bilanciamento di tutti gli elementi del film possano garantire una pellicola eccelsa nella sua totalità.
Una scena da “Gomorra”, di Matteo Garrone

Simone Fabriziani


Il divo (2008) di Paolo Sorrentino

Prima della conferma internazionale de “La Grande Bellezza” il regista campano Paolo Sorrentino racconta con piglio pop e spregiudicato l’ultimo governo Andreotti attraverso le contraddizioni di uno degli uomini politici più enigmatici della storia della repubblica italiana. Nascosto sotto l’ingombrante trucco di Toni Servillo, Giulio Andreotti è gli occhi e le orecchie attente ed inedite di una pagina della storia politica della penisola segnata da attentati e suicidi da prima pagina. Accompagnato dal solito mix irresistibile di musica classica, rock e insospettabilmente pop, Sorrentino racconta le contraddizioni di una Italia sull’orlo della Seconda Repubblica e di Mani Pulite con potenza visiva, narrativa e musicale. Forse il film più complesso del regista premio Oscar.

Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) di Gabriele Mainetti
La più grande scommessa del cinema italiano degli ultimi anni è sempre stata quella di saper competere con gli stilemi e le narrazioni del cinema d’oltreoceano, senza però cascare nel tranello dell’imitazione. Ci è riuscito Gabriele Mainetti con “Lo chiamavano Jeeg Robot”, racconto di un supereroe di borgata romana dalle tinte più pasoliniane che americane. Interpretato splendidamente dal trittico in stato di grazia di Claudio Santamaria, Luca Marinelli e Ilenia Pastorelli, il film di esordio di Mainetti in poco tempo e con un passaparola crescente è divenuto nel 2015 un caso cinematografico nostrano di tutto rispetto, assurgendo di diritto a titolo cult di genere nella storia del cinema italiano.
Gomorra (2008) di Matteo Garrone
Vincitore di 7 David di Donatello e candidato agli Oscar 2008 per rappresentare l’Italia, il potente adattamento del best-seller di Roberto Saviano si è trasformato nelle mani del regista romano Matteo Garrone in uno spietato scorcio dal respiro corale della malavita della Campania e delle sue insospettabili conseguenze attraverso i racconti viscerali di varie umanità, tutte toccate in diverso modo dalla mano nera della camorra. Un film senza mezzi termini e senza via di uscita. Disperato.
Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese
Forse il film meglio scritto nel panorama italiano degli ultimi cinque anni. Una bomba ad orologeria narrativa ben oliata i cui ticchettii alla rovescia sono i pungenti dialoghi, scontri e controbattute di una apparentemente tranquilla cena tra amici di vecchia data. Un topos narrativo già architettato a dovere nel grande cinema italiano del passato, che qui però esplode in un vero e proprio gioco al massacro tra rivelazioni inaspettate e un giochino con il cellulare da far sudare freddo. Uno spaccato al vetriolo della società occidentale e di come i rapporti e la fiducia con gli altri si sia inesorabilmente trasformata. In peggio.
La prima cosa bella (2010) di Paolo Virzì
Non il miglior film del regista toscano degli ultimi dieci anni, ma forse il più commosso e intimo. Sullo sfondo di una Toscana da cartolina Virzì racconta le vicissitudini di una madre allo sfratto, single e con due figlioletti a carico dall’infanzia dei due fino all’età adulta, tracciando quindi una cronistoria onesta e veritiera di una famiglia ha sempre emblematicamente vissuto sotto l’ombra della matriarca, donna forte e fragile allo stesso tempo. Grandiose le interpretazioni di Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti e Stefania Sandrelli.

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