It – La recensione dell’adattamento cinematografico del romanzo di Stephen King

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Di Michelangelo Bedetti
È impossibile stargli dietro. Con ben più di 50 romanzi e 11 collezioni di racconti all’attivo, Stephen King è tra gli scrittori contemporanei più prolifici di sempre. Il Jules Verne americano, pulp, cult e soprattutto pop, King nei suoi oltre 40 anni di attività non ha solo scritto fiumi di parole, ma ha creato una vera e propria mitologia, tale da superare addirittura egli stesso in magnitudine. 

Erede spirituale di Lovecraft e Poe più in quanto a storie che a stile e archetipi, il maestro dell’horror ha innumerevoli volte ispirato produzioni hollywoodiane sempre a caccia di adattamenti per il grande schermo: si contano 60 film adattati direttamente dai suoi testi, per poi non contare tutte quelle opere, serie e corti che solo si ispirano alla mitologia dell’autore, come il recente successo on-demand di Stranger Things. A testimonianza della continua proliferazione di King solo quest’anno vedremo in televisione Mr. Mercedes, Gerald’s Game, Castle Rock e il ritorno di The Mist (appena cancellata da Spike TV); invece, fresco dalle sale cinematografiche, vi abbiamo già parlato de La Torre Nera, mentre presto sui lidi Italiani sbarcherà anche It, qui per voi recensito in anteprima.

Subito campione di incassi e abbattitore di record, quello di It è un progetto inizialmente sviluppato dal regista Cary Joji Fukunaga (True Detective, Beasts of No Nation), strappatogli poi di mano dalla Warner Bros. e affidato alla nuova promessa dell’orrore di massa: il regista argentino Andrés Muschietti (Mama 2013), Andy per gli amici. Quella che Andy decide di raccontare è però soltanto una parte della romanzo, qui disciolta in maniera più lineare rispetto al romanzo di King e alla discutibile miniserie andata in onda sulla ABC nel 1990. In questa versione il racconto si concentra sulla fase giovanile dei protagonisti, ricollocando le vicende degli anni 50 nei più vicini e identificabili anni 80: in un paese nella provincia del Maine, Stati Uniti, un gruppo di ragazzini soprannominati i “Perdenti” si ritrovano, loro malgrado, ad affrontare un’entità malvagia che emerge dalle fogne ogni 27 anni. Dopo essersi nutrito dei bambini del vicinato, presto It  prende di mira i Perdenti cercando di farli soccombere alle loro più grandi paure, prima di divorarli in preda al terrore. Il gruppo di eroi-amici è composto da Stan, ebreo prossimo al bar mitzvah; Eddie, spinto all’ipocondria dalla madre; Richie, irriverente e dalla battuta pronta. Poi ci sono Ben, il nuovo arrivato deriso per l’obesità; Bill, balbuziente fratello della prima vittima; Mike, di una famiglia di macellai tormentati da It e infine Beverly, la giovane eroina con il padre violento e abusivo.
I sette ragazzi sono efficacemente interpretati da un piccolo cast di grezzi talenti, che subito vincono l’affezione dello spettatore. Tra di loro certo spiccano Finn Wolfhard (Stranger Things), nel ruolo di Richie e Sophia Lillis in quello di Beverly, forse da Emmy, se fossimo ancora in TV, ma certamente non da Oscar. Sul lato opposto della strada, che osserva inquitante dalla grata di una fogna, c’è  invece It, sotto forma del pagliaccio malefico Pennywise, interpretato funzionalmente, ma in maniera un poco dimenticabile, dallo svedese Bill Skarsgård. Forse per una scelta di produzione che cerca di prendere il minor numero di rischi, è assente da questa versione del film la trasfigurazione più cerebralmente horrorifica dell’entità It, quella dei Pozzi Neri: globi luminosi arancioni in grado di risucchiare la sanità mentale di chi si perde nella loro visione. It è infatti un essere cosmologico, molto più pervasivo e potente di un semplice fantasma da film horror di fine estate, che assume nella sua ultima iterazione l’anatomia incomprensibile e mentalmente insostenibile di una vera creatura Lovecraftiana. In questa nuovo adattamento It predilige invece la sua forma clownesca, in una perfetta resa materica grazie al design di Claude Paré e Janie Bryant, lasciando al mythos cosmologico di King il solo spazio di piccole allusioni disseminate nel film come uova di pasqua in un giardino, che faranno subito prenotare il biglietto per il sequel ai fan del romanzo. Ma purtroppo, così formalmente limitato, Pennywise si riduce a tormentare i protagonisti con spaventi degni di una bambola a molla: visivamente compassati, tecnicamente impressionanti, semioticamente giocosi, ma emotivamente scarichi. Manca un certo scontro di fisicità tra i bambini e il pagliaccio, che malgrado trucco e design molto accattivanti e tangibili, ricorre una volta di troppo alla computer grafica per lacerare le tenere carni di innocenti. La fotografia di Chung-hoon Chung (Oldboy, The Handmaiden) è sicuramente molto preziosa e tecnicamente definitiva. In sala di montaggio qualcuno deve essere però scivolato sul cursore della saturazione, trasformando quadri dalla perfetta composizione in immagini a tratti molto cartoonesche. Questa forse una scelta conscia di Muschietti, che decide di raccontare un orrore visto da degli occhi più infantili, e riservare la parte adulta della storia per il secondo capitolo, forse il più interessante e tenebroso se davvero deciderà di presentarci un orrore maturo e pervasivo.
Nel frattempo la scena forse più oscura e spaventosa del film vede Pennywise rompere la barriera spazio-mediatica di un proiettore, raddoppiare di dimensioni e animato da una luce ad intermittenza assalire i ragazzini rinchiusi in un claustrofobico garage (forse l’unico luogo che il film ha il tempo di introdurre e sfruttare prima di passare alla prossima scenografia a cinque zeri). È difficile definirla però come scena madre, visto che non si colloca all’inizio o alla fine di niente, malgrado la mirabile esecuzione stilistico-tecnica. In generale tutta la parte centrale del film soffre di una debole consequenzialità, quando la videocamera si sofferma invece a raccontare le piccole storie dei protagonisti con un registro completamente diverso da quello dell’horror. Una buona parte del pubblico e anche qualcuno tra la critica ha deciso di leggere il film come una coming of age story alla Stand by Me – Ricordo di un’estate (1986), con degli inserti horror, ma laddove film recenti come Scappa – Get Out (2017) erano riusciti a muoversi intelligentemente tra due registri (comico e horrorifico), It non riesce a strumentalizzare con completa convinzione il confronto con la minaccia di Pennywise ai fini dei drammi della crescita pre-adolescenziale e degli abusi famigliari.
Lo stesso Stephen King ha avuto tuttavia modo di lodare questo adattamento, facendoci porre qualche domanda sulla natura di King trasposta sul grande schermo. In Danze Macabre (1981), lo studio di King sull’horror gotico e manifesto anti-intellettuale, lo scrittore mette alla luce proprio la netta contraddizione tra bene e male della sua tradizione più conservatrice e delinea a livello narrativo la semplice alternanza ritmica tra rischio e consolazione ben visibile nella pellicola di Andy Muschietti. Non è un caso che le iterazioni più sperimentali e acclamate dalla critica siano state invece sotto il completo controllo di registi che hanno fin da subito rifiutato le sceneggiature dello stesso King, sbattendogli la porta in faccia. Stiamo parlando di Shining (1980) di Kubrick, La Zona Morta (1983) di Cronenberg e The Mist (2007) di Darabont, che hanno visto enormi cambiamenti, soprattutto con l’eliminazione del riequilibrarsi finale degno di una favola categorizzata da Propp. Certo è vero che non si può biasimare il loro totale rifiuto per un’ingerenza di King, visto il capitombolo che fu Brivido (1986), la sua prima e unica esperienza di regia.
Molti lettori citano volentieri una frase di King: “I mostri sono reali e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono” ma dimenticano la seconda parte di questa citazione: “Ma è anche vero che i nostri migliori angeli a volte riescono a vincere contro ogni aspettativa” E allora per comprendere se veramente Andy sia riuscito a catturare l’autentica essenza di King non ci resta che aspettare che ci metta davvero a rischio nel secondo capitolo della sua duologia, dopo averci rassicurato con il finale di It: Capitolo Uno.



VOTO: 6.5/10


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