Trey Edward Shults: Il giovane prodigio del cinema americano tra Freud e Haneke

Seguici anche su:
Pin Share

Di Gabriele La Spina

Incoronato a 27 anni come rivelazione del cinema americano, Trey Edward Shults è effettivamente una grande promessa. A due anni dalle vittorie di innumerevoli premi del cinema indipendente, il regista e sceneggiatore americano, è tornato quest’anno nelle sale con l’horror impredicibile It Comes at Night, che rappresenta un secondo importante pezzo del suo puzzle creativo. Se con Krisha era già riuscito a trascendere i generi cinematografici, ha fatto lo stesso con la sua ultima pellicola. Due film dall’incisività invidiabile dai più navigati registi, due storie di estremo impatto e lettura psicologica.

Tratto dal suo stesso cortometraggio dal titolo omonimo, il film d’esordio di Shults si apre con uno struggente e straniante primo piano sul volto segnato di Krisha, ed è seguito da un lunghissimo piano sequenza, che conduce Krisha e noi insieme a lei, verso la sua famiglia per il Giorno del Ringraziamento. Un lunga serie di saluti, la camera che ruota su diversi abbracci e le danze sono aperte. Il frastuono dei nipoti, i parenti in pieni preparativi, fanno sembrare la pellicola di Shults un semplice ritaglio di vita familiare, ma questo non è. Krisha è un’alcolista e bipolare che ha abbandonato il figlio Trey, e ha segnato la sua vita e quella di tutti suoi familiari con la sua spirale di autodistruzione. Shults viviseziona il cranio di Krisha facendone emergere i suoi demoni, e noi ne siamo proiettati al suo interno. Tre i formati dell’immagine per rappresentare gli stati mentali della protagonista, l’1.85:1- per questa sorta di incursione da intrusa nella sua famiglia, dove siamo continuamente accompagnati da un insistente bit tribale a tratti stordente; il 2.39:1 – quando le speranze di ricostruire il rapporto con il figlio abbandonato iniziano a vacillare per Krisha e, comprendendo la sua estraneità alla sua famiglia si trasforma in una voyeur per poi lasciarsi andare a un oblio, e infine l’1.33:1 (4×4) – quando risvegliatasi dal disastro generato dal suo alcolismo decide di raccoglierne i cocci, un formato non casuale per rappresentare lo stordimento della protagonista e si collega al contempo ai vecchi filmati dell’infanzia di Trey mostrati. Il film di Shults, così come la corrente letteraria di inizio ‘900, potrebbe essere etichettato come cinema d’analisi, dove il piano sequenza sostituisce il flusso di pensiero di letterati come Virginia Woolf. E la sua Krisha non è poi così dissimile dalla celebre Mrs. Dalloway. Il lavoro di Shults è però intrinseco di una forte dose di veridicità. Quella di Krisha è infatti una storia che appartiene alla sua famiglia, il personaggio si ispira infatti alla cugina di Shults e a una riunione familiare realmente accaduta, qui interpretata dalla stessa zia del regista, una fenomenale Krisha Fairchild, la cui performance è il cuore pulsante del lungometraggio, mentre gran parte dei suoi familiari hanno ricoperto i ruoli di sé stessi, rivivendo quell’evento e donando un’autenticità senza eguali. Anche il regista fa parte del cast interpretando il ruolo del figlio della protagonista. Dal ritmo incalzante, crudele e spudorato, il film di Shults scava nelle dinamiche familiari fino ad arrivare alla radice di traumi, dolori e rimpianti; i ricordi si mescolano al reale, e le immagini hanno una forte carica simbolica imprimendosi come dei lampi nel pensiero della protagonista, quasi come in una seduta terapeutica. Krisha è probabilmente un’esperienza visiva tanto sconvolgente che qualunque parola utilizzata per descriverla non sarebbe appropriata.

Kelvin Harrison Jr. in una scena di “It Comes at Night”

Se rielaborare un dramma familiare, realizzando una versione politicamente scorretta del Mommy di Xavier Dolan, ha reso Shults un regista imprevedibile, ulteriore conferma sarà lo spostamento verso un genere totalmente differente, ma che nei suoi toni di continua inquietudine, riesce a creare un ponte con il suo debutto. In It Comes at Night, seconda pellicola del regista, viviamo un’angosciante realtà attraverso gli occhi di Travis, interpretato dall’ottimo Kelvin Harrison Jr., che insieme ai genitori vive in una casa avvolta dalla fitta vegetazione della foresta. Dai primi istanti del film assistiamo alla morte del nonno Bud, poi bruciato e sepolto dal padre. Nulla viene apertamente esplicato, oltre al fatto che la famiglia si trova in un momento di estrema crisi per l’umanità, dilaniata da un virus mortale. Ipocondria e profonda paranoia hanno un ruolo principale nelle psicologie dei protagonisti, ma qui Shults esplora in profondità la psicologia di Travis, il vero elemento horror della pellicola è infatti rappresentato dai sogni del ragazzo, che vede il nonno tornare dalla tomba e ha la costante paura di contrarre la malattia che glielo ha portato via. La realtà e il sogno si fondono e si dissolvono uno sull’altro, l’oscurità della casa, dove per Shults il constante punto focale sono le abbaglianti lanterne da campeggio che tengono i protagonisti per spostarsi, diventa la cupa dimensione della loro mente. Il simbolismo della sceneggiatura di Shults non si ferma però a questo, unica via uscita e di ingresso della casa e una sgargiante porta rossa, rappresentazione dell’ignoto e del terrore per l’esterno, ed è da lì che una notte si introdurrà Will. Anche lui con la moglie e il figlio minore vive la stessa realtà dalla famiglia di Travis, e dopo l’estrema ostilità del padre Paul, che arriva quasi a ucciderlo, i due uniscono le loro famiglie creando una futile bolla di serenità passeggera. Basta un episodio a frantumare quel fragile equilibrio, e a ribaltare lo svolgimento del film. Shults batte terreni già visti in passato, ma lo fa con un approccio sorprendentemente elegante, da dramma familiare introspettivo il suo film si trasforma successivamente in un Funny Games al rovescio. “Non mi ci sono mai approcciato come se fosse un film horror, così come è stato definito“, ha dichiarato Shults a The Independent, infatti It Comes at Night non potrebbe essere più distante dal genere, e risulta difficile inquadrarne la collocazione visto che gli elementi dei generi sono molteplici. L’adolescenza rubata di Trevis? La vera indole della natura umana? O una pura distopia su un futuro non troppo lontano? Shults ha molto del cinema già citato di Michael Haneke, dai suoi personaggi alla pulizia formale del suo stile di regia.
Quando a 18 anni Shults si trasferì nella casa di sua zia Krisha nelle Hawaii, non avrebbe mai creduto che la connessione con la comunità di registi del luogo avrebbe cambiato il suo modo di percepire il cinema. E tale istinto è stato accentuato dall’aver lavorato a stretto contatto con Terrence Malick e i direttori della fotografia Emmanuel Lubezki e Paul Atkins, che lo ha portato con sé in Cile e Islanda per le riprese di The Tree of Life. Si muoveva furtivo tra gli assistenti, durante le riprese di un vulcano per la scena di Voyage of Time, mentre imparava la grammatica del cinema, “Ciò che è accaduto ha cambiato il corso della mia vita“, racconta Shults a IndieWire, “Non avevamo nemmeno una scuola di cinema in Texas, e ho deciso di scappare“. E se non avesse fatto quella scelta oggi non avremmo probabilmente una delle nuove voci più interessanti del cinema indie americano, e con alte probabilità, uno dei grandi di domani, poiché la ferocia, la carnalità ma allo stesso tempo l’intimismo del suo modo di raccontare queste storie, apparentemente estrapolate dal suo stesso inconscio, è la ventata di aria fresca che mancava al cinema contemporaneo.


Pubblicato

in

da