The Assassination of Gianni Versace: American Crime Story 2×01 “The Man Who Would Be Vogue” – La recensione

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Di Gabriele La Spina

A due anni dalla sua prima stagione, il filone crime dell’universo televisivo di Ryan Murphy, il soprannominato Re Mida della TV americana, torna sui nostri schermi. Prevista inizialmente come terzo racconto di American Crime Story, ma anticipato visto il richiamo del cast e la risonanza della storia, The Assassination of Gianni Versace, abbandona il taglio processuale di The People v. O. J. Simpson, ma non la valenza sociale su un tema dopo decenni ancora di estrema attualità, dalla comunità afroamericana e il suo trattamento si passa infatti a quella gay, di cui Gianni Versace è stato in qualche modo l’emblema nei lontani anni ’90.

Con l’Adagio in sol minore un inspiratorio prologo ci introduce all’opulenza della vita di Gianni Versace, nella sua vistosa villa, tra una schiera di domestici, un cuoco personale e ammiratori al suo cancello. E quando Versace si affaccia al suo balcone con delle tende di seta svolazzanti alle sue spalle, un distrutto Andrew Cunanan è seduto in riva alla spiaggia stringendo una pistola tra le mani. È il 1997, e in quel momento Cunanan deciderà la morte di Versace, con uno sparo che ucciderà anche una colomba bianca. Segue il prologo, un balzo indietro di 7 anni, saranno due infatti i lassi temporali che la stagione seguirà, gli eventi che dal 1990 in seguito all’incontro tra Cunanan e Versace, hanno portato alla morte di quest’ultimo, e ciò che ha scaturito il suo omicidio oltre la caccia a l’uomo per la cattura di colui che diverrà un serial killer. Vediamo dunque il giovane Cunanan, personaggio degno delle pellicole più nere del vecchio Van Sant, bugiardo cronico e arrampicatore sociale, che trova in Versace un’opportunità o meglio un assaggio di quella ricchezza che ha solo potuto bramare in passato.

Mancano notevolmente i toni di The People v. O. J. Simpson, la valenza della tematica e soprattutto un casting non così centrato come si possa pensare. Come accennato la tematica principale sembra essere quella del trattamento e del riconoscimento della comunità gay nell’America degli anni ’90, ma ancor di più, ciò su cui perlomeno questo primo episodio sembra calcare la
mano, è la totale ignoranza degli americani, e della stessa polizia, sulla reale natura dei rapporti gay e sulla loro valenza. Un riconoscimento culturale che forse ad oggi potrà sembrare scontato, ma che nel ’97, secondo la goffa sceneggiatura dell’episodio, non lo era. Ed è emblematica la frase omofobia che Cunanan legge incisa in un bagno nei primi minuti dell’episodio, che in qualche modo tenta di generare empatia per un reietto, un rifiuto, del sogno americano. Cunanan è infatti il reale protagonista della stagione, dove Darren Criss, figlio artistico di Ryan Murphy che qui firma inoltre una delle sue regie più pigre, ha il ruolo della sua ancor acerba carriera, un ragazzo dissociato, al limite del sopportabile. Paradossale pensare che il più giovane del cast, offre il meglio a livello interpretativo, contro altri membri del cast adulti e navigati. Uno dei peggiori stridi per un italiano che guarda questa stagione, è indubbiamente la terribile accento degli interpreti, che si presume sarebbe dovuta essere italiana, se Edgar Ramirez, nei panni di Versace, riesce a mimare con pochi scivoloni l’inglese con accento italiana dello stilista, i due grandi tonfi sono quelli di Penelope Cruz, con la sua indelebile accento spagnola e un Ricky Martin, che non ha probabilmente nemmeno tentato la sfida. La Cruz interpreta Donatella Versace, che sopraggiunge in lutto alla villa assediata da giornalisti e polizia, e prende le redini dell’impero familiare vacillante dopo la morte del
fratello; mentre Martin nel più caricaturale e puerile dei modi, è il compagno di Versace, Antonio D’Amico.

Al contrario di quanto avvenuto guardando la prima stagione di American Crime Story, non vi è l’input di voler proseguire nella visione di una stagione simile per scoprire lo svolgimento e l’evoluzione di personaggi, finora non propriamente caratterizzati. E sono molteplici le questioni che solleva, dalla scelta del casting interamente ispanico per interpretare personaggi italiani (i nostri attori sono davvero così poco esportabili?) e la necessità di raccontare una vicenda simile a discapito della stagione sul disastro dell’uragano Katrina, se non per un maggiore appeal commerciale. Si tratta probabilmente di una produzione che, costellata da numerosi momenti puramente trash, dalla modella che sfila alle spalle dei giornalisti sulla scena del crimine alla donna che intinge nel sangue dello stilista un ritaglio di una rivista con una pubblicità del marchio di Versace, segna una perdita di mordente per il filone di American Crime Story, prima esempio di solidità, adesso preda di una deviazione sensazionalistica, pregna di gossip da vecchia televisione o dei peggiori esempi di cinema biografico.

VOTO: 5/10