Perché ‘Chiamami col tuo nome’ è un capolavoro al di là delle etichette

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Di Daniele Ambrosini

Il nuovo film di Luca Guadagnino è il classico film che agli Oscar non ci sarebbe dovuto arrivare, un film piccolo, non pensato per il grande successo a cui poi è andato incontro. Il suo percorso è in qualche modo paragonabile a quello di Boyhood, entrambi i film sono stati presentati a festival internazionali nella prima parte dell’anno e sono divenuti successi di critica così clamorosi che era diventato impensabile non tentare di dargli una chance all’interno del circuito dei premi. Richard Linklater aveva già ottenuto due candidature agli Oscar, ma mai un suo film era stato preso in considerazione per le categorie principali; per Guadagnino invece, italiano e quindi svantaggiato, quello della candidatura all’Oscar è un traguardo importantissimo, non solo perché Guadagnino ha sempre avuta molto poca visibilità (soprattutto in patria), ma anche perché pure Chiamami col tuo nome rischiava di non averne.



Chiamami col tuo nome è stato etichettato fin da subito come un nuovo capolavoro del cinema lgbt, come uno dei migliori coming of age mai realizzati, come una perla del cinema indipendente. I termini altisonanti e gli apprezzamenti non sono di certo mancati, ma credo sia arrivato il momento di revisionarli poiché Chiamami col tuo nome è un film così profondamente riuscito ed incisivo che considerarlo solamente in quanto opera lgbt o come coming of age sarebbe limitante. Entrambi i termini si riferiscono a quelli che sono a tutti gli effetti due filoni narrativi e non due generi cinematografici; il dramma, la commedia, il thriller sono generi, ma i filoni lgbt e coming of age no, perché sono a tutti gli effetti slegati dai generi. L’esempio viene più facile con i coming of age, pensate per esempio a Juno, Spring Breakers, Lasciami entrare e Super Dark Times, tutti film che, pur appartenendo allo stesso filone narrativo, appartengono a quattro generi cinematografici completamente diversi: la commedia, il dramma, l’horror e il thriller. Quindi sembra una forzatura dover considerare la grandezza di questo o di altri film relativa solo al loro campo di appartenenza, che non corrisponde neanche ad un genere preciso. In fondo cosa hanno La vita di Adele, Carol e Chiamami col tuo nome da invidiare ai grandi drammi del ventunesimo secolo? Niente, sono capolavori al dì là del loro genere e delle etichette arbitrarie che gli vengono costantemente assegnate, come per inserirli in un cinema altro, per evitare il confronto con i “capolavori” mainstream, non a tematiche lgbt, forse ancora ritenute scomode per il grande pubblico. Ma i tempi in cui i film lgbt erano rari sono finiti, ormai ogni anno ne escono di più belli e sofisticati, perciò appare anacronistico giudicare un film in base all’orientamento sessuale dei suoi protagonisti. Non perché non sia necessario diversificare la rappresentazione dei personaggi su schermo, anzi, abbiamo bisogno di sempre più rappresentazioni veritiere e rispettose della comunità lgbt, di uomini e donne di colore e delle minoranze in genere, così come abbiamo bisogno di storie con donne protagoniste, ma è necessario che tutti questi film siano considerati sullo stesso piano, che la presenza di un personaggio diverso dallo stereotipo dominante dell’uomo bianco non ne determini una differente catalogazione. Dobbiamo iniziare a riconoscere i grandi film al di là delle diversità.
Questo preambolo era necessario per dire che, ad oggi, un film come Chiamami col tuo nome dovrebbe essere celebrato come un capolavoro al di là delle sue etichette, come un film di ammirabile fattura in grado di parlare a chiunque, che non ha nulla da invidiare a niente e a nessuno. Opera lgbt sì, ma non opera che vuole parlare di omosessualità, Chiamami col tuo nome è un film che saggiamente decide di parlare di amore  in senso assoluto, attraverso la storia di una relazione pura, passionale e distruttiva. I protagonisti non vengono inseriti in un contesto ostile in cui l’orientamento sessuale diventi una tematica da affrontare, ma sono lasciati liberi di vivere e di scoprire loro stessi, con i loro tempi e le loro modalità. L’omosessualità non è un tema da trattare come diverso, da rimarcare, da discutere in continuazione, è semplicemente qualcosa di normale. Niente viene mai recriminato a nessuno in questo film, che pure è ambientato nel 1983, quando si decide di fare un passo indietro nel tempo di solito è per rimarcare una mentalità retrograda e conservatrice, ma qui non avviene niente del genere. Quello di Guadagnino è un ritratto spassionato dei suoi protagonisti, osservati e raccontati senza troppi fronzoli e senza caricature di sorta, un racconto che non ha paura di concedersi del tempo prima di carburare e di procedere linearmente senza inserire alcun elemento sensazionale alla trama perché, infondo, quando si hanno due protagonisti così carismatici e naturali non serve nient’altro.

Tutto nel film è pensato affinché lo spettatore entri in sintonia con Elio ed Oliver, i due protagonisti di questa bellissima storia d’amore. Guadagnino favorisce l’immersione totale dello spettatore tramite un lavoro molto attento alla costruzione dell’atmosfera, dapprima avvertita come distante e poi come molto intima. Guadagnino gioca con la macchina da presa alternando campi stretti ad altri molto ampi, laddove quando il fine ultimo di un film è creare empatia spostare la macchina da presa indietro è sempre un bel rischio, un rischio che qui viene preso con coscienza, una scelta stilistica coraggiosa che permette al regista di alternare sapientemente ciò che deve mostrare e ciò che invece decide solo di suggerire, sia a livello contenutistico che visivo. La fotografia immersiva, la regia curata, i costumi e le scenografie splendide favoriscono l’avvicinamento dello spettatore a quel mondo fatto di colori caldi e di ripetitivi pomeriggi estivi; in circa mezz’ora si viene completamente catturati dall’atmosfera del film, ed è proprio una volta che si è davvero entrati nel contesto che la storia a cui stiamo assistendo può davvero iniziare a fare presa. Ciò che colpisce di più di questo film è come tutto proceda in modo incredibilmente naturale, in modo così verosimile da sembrare quasi vero, come se tutto quello che vediamo accadere sullo schermo stesse accadendo sotto i nostri occhi in quello stesso momento, non c’è davvero niente che sembri una costruzione artificiale. Pur essendo consapevoli di passare attraverso il filtro della visione d’insieme del regista, si ha l’impressione di assistere a qualcosa che sta prendendo piede proprio adesso, al di là delle barriere fisiche e temporali. A contribuire a questa genuina sensazione di realtà sono tanti piccoli dettagli, come gli elementi di contorno quali gli scricchiolii costanti della casa, i suoni dell’acqua e della natura circostante e la continua presenza di mosche, ma è soprattutto l’attenzione data ai corpi dei protagonisti ad annullare, apparentemente, le distanze tra rappresentazione filmica e realtà. 

Si potrebbe dire che è proprio nel lavoro svolto sui corpi che il film trova la sua dimensione “reale”, è lì che emerge prepotentemente quella naturalezza che non è pretesa di imitazione della realtà, ma ne è semplicemente una riproposizione il più sincera possibile. Solitamente quando un film decide di dedicare tanta attenzione alla componente fisica opta per avvicinarsi quanto più possibile ai corpi, con inquadrature strette o strettissime, come a creare un senso di claustrofobia, in Chiamami col tuo nome invece si è deciso di dare all’inquadratura un respiro più ampio, di permettere allo spettatore una visione d’insieme che permette di cogliere ogni minimo gesto dei personaggi; così facendo non viene posto l’accento su un singolo sguardo o un singolo movimento, ma viene data importanza alla corporalità nel suo insieme, a tutti quegli elementi che caratterizzano i personaggi dal punto di vista fisico. Il giovane Timothée Chalamet fa un lavoro incredibile, l’intero film si regge sulle sue spalle; un attore diverso al suo posto probabilmente non avrebbe reso allo stesso modo tutte le sfumature del personaggio, non avrebbe mai potuto fondere in un insieme così omogeneo quel fare sbarazzino e quegli sguardi insicuri. Armie Hammer si dona completamente al suo personaggio, che però, per forza di cose, resta più distante, quasi secondario, in quanto il focus è tutto sull’Elio di Chalamet, personaggio più affascinante, più instabile, più emotivamente carico. Hammer è un oggetto del desiderio dapprima distante, il cui corpo – proprio come quello delle statue greche descritte dal padre – sfida Elio a desiderarlo, un corpo perfetto ed inarrivabile che con il progredire della storia si mostra vulnerabile (la ferita procurata dalla caduta in bicicletta) e conquistabile. Nel momento in cui viene finalmente azzerata la distanza fisica tra i due protagonisti, pure il loro linguaggio corporeo cambia del tutto, al punto che i corpi stessi sembrano quasi dialogare tra loro, secondo una dialettica giocosa e sensuale che rende questa storia di formazione viva e vitale, piena di giovanili energie, piena di speranze e di ironia. Chiamami col tuo nome è una lettera d’amore alla spontaneità, alla bellezza della fisicità e alla forza delle emozioni.

Questo film trasuda umanità da ogni singolo fotogramma. La storia d’amore tra Elio e Oliver, che noi vediamo principalmente dal punto di vista del primo, è una storia d’amore universale che trascende l’orientamento sessuale dei suoi protagonisti, una relazione carnale, ma pura, intensa, innocente come solo i primi amori possono essere. Guadagnino si lascia trasportare dalla storia, la sua è una regia esuberante, ma curatissima, che, nonostante qualche piccola sbandata, riesce sempre a tenere le redini di quella che è a tutti gli effetti un’opera emotiva e per questo un’opera dal grande cuore, che avvertiamo in molti frangenti essere profondamente sentita dal suo regista (e non solo). La sceneggiatura scritta da James Ivory per il film è solidissima, il montaggio preciso e puntuale ed il lavoro fatto sul sonoro è paragonabile a quello fatto sui corpi tanto è avvolgente. Insomma ci troviamo di fronte ad un film universalmente bello, di quelli che bisogna festeggiare e a cui bisogna riconoscere i loro meriti. Non perché il film sia perfetto, la perfezione (soprattutto al cinema) non esiste, ma perché ci troviamo di fronte ad un film ambizioso, in grado di commuovere e di convincere come pochi altri hanno fatto in tempi recenti. Tutto quello che abbiamo detto fino ad ora ci porta ad affermare che Chiamami col tuo nome è un vero e proprio capolavoro, uno che trascende le sue etichette e che riesce a parlare a tutti perché profondamente umano, e come tale dovremmo riconoscere questo film che, Oscar o meno, resterà a lungo nella memoria degli spettatori che hanno avuto la sensibilità necessaria per comprenderlo appieno.