L’uomo che uccise Don Chisciotte – La recensione del travagliato film di Terry Gilliam con Adam Driver e Jonathan Pryce

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Di Daniele Ambrosini

Dopo oltre 25 anni di tormentata lavorazione, imprevisti, cause legali e problemi di ogni genere, l’adattamento del classico di Miguel de Cervantes firmato da Terry Gilliam è finalmente riuscito a raggiungere le sale cinematografiche. Una vera e propria Odissea che sembrava destinata a rimanere incompiuta quella di Gilliam (parzialmente raccontata nel documentario del 2002 Lost in La Mancha), un percorso insolito costellato da tanti insuccessi e terminato con un insperato lieto fine.

Lungi dall’essere una trasposizione fedele della monumentale opera di Cervantes, L’uomo che uccise Don Chisciotte coglie lo spirito del romanzo e lo traspone in uno scenario moderno. Protagonista del film infatti è Toby (Adam Driver), un giovane regista di spot pubblicitari che torna in Spagna per girare una pubblicità anni dopo aver realizzato un film su Don Chisciotte in quella stessa zona; qui ritrova le persone che avevano partecipato alla lavorazione del suo film ed ha modo di vedere come tutti siano stati cambiati da quell’esperienza, soprattutto Javier (interpretato da un eccezionale Jonathan Pryce), il calzolaio che aveva interpretato Don Chisciotte e che da allora non è mai riuscito ad uscire dalla parte, tanto da diventare egli stesso Don Chisciotte. Javier si convince che Toby sia il suo fedele scudiero Sancho Panza e lo coinvolge in uno stravagante viaggio in cui realtà e fantasia sono difficilmente distinguibili.
L’uomo che uccise Don Chisciotte è un film costantemente sopra le righe, spesso al limite del grottesco e del caricaturale, un viaggio assurdo condito con una sanissima dose di ironia, insomma, è a tutti gli effetti un film di Terry Gilliam, nel bene e nel male. C’è sì quell’entusiasmo di base che contraddistingue il lavoro dell’instancabile regista inglese che rende il tutto molto godibile, ma c’è anche una certa esuberanza, un gusto per il portare le situazioni all’eccesso, che in numerose occasioni porta ad optare per soluzioni narrative molto ingenue. Bisogna però riconoscere che questo è anche sintomo dell’innegabile spontaneità dell’opera di Gilliam, che anche dopo anni di rielaborazione e di riscritture  non ha ceduto alla tentazione di appesantire il proprio script con pretenziose riflessioni o pesanti e complesse impalcature narrative. Nel film è tutto chiaro e limpido: c’è un piano puramente narrativo, quello principale, che è destinato ad essere divertente, ad intrattenere, e c’è ovviamente anche un piano di lettura un po’ meno superficiale, che però è più uno spunto che una vera e propria chiave di lettura, insomma qualcosa che c’è ma che non è mai realmente ingombrante.


Conoscendo, anche solo vagamente, la storia che c’è dietro alla travagliata lavorazione del film, viene automatico accostare alla figura di Toby – il sognatore che decide di abbandonarsi alla fantasia, perseguitato dalla storia di Don Chisciotte – a quella del suo autore. Da qui scaturisce quel piano di lettura interpretativo che vede il suo protagonista come un paladino della fantasia contro la banalità della realtà – e così Gilliam. Il film non è altro che un imperfetto viaggio che parte da Sancho Panza per arrivare a Don Chisciotte, che parte dalla realtà per poi sposare un punto di vista altro, a suo modo migliore che, infondo, è una specie di testamento registico dello stesso Terry Gilliam. Insomma tutto questo c’è, è in superficie, non bisogna scavare troppo a fondo per riuscire ad interpretare un film che non aspira ad essere profondo o a nascondere altri piani di lettura, perché, in fondo, L’uomo che uccise Don Chisciotte è un film estremamente godibile che trova nel piacere del racconto il suo massimo pregio, è un film che parla direttamente al suo pubblico.
Ciò che è innegabile è la passione e la caparbietà profusa nel realizzare questo progetto, una passione che si avverte nel corso della pellicola e che inevitabilmente coinvolge lo spettatore; ma è altresì evidente che il budget ristrettissimo e la (malcelata) volontà di renderlo un film appetibile per il pubblico abbiano ridimensionato un’opera che poteva aspirare ad essere più grande, più epica, più stravagante, più incisiva, insomma, di più.
VOTO: 7/10