Maniac – La recensione della serie Netflix di Cary Joji Fukunaga con Emma Stone

Seguici anche su:
Pin Share

Di Gabriele La Spina

Con un’intrigante esordio, ulteriore adattamento del romanzo Jane Eyre, il regista californiano Cary Joji Fukunaga si è imposto maggiormente nel panorama televisivo solo qualche anno dopo con True Detective, serie HBO di Nic Pizzolatto di cui ha diretto tutti e 8 gli episodi. Dal suo esordio cinematografico a quello televisivo, sembra costante la cifra stilistica tetra, un’alta precisione registica e intuizioni brillanti. Nel 2015, Beasts of No Nation è stato indubbiamente il film dell’affermazione di Fukunaga, snobbato dall’Academy poiché su un mezzo ibrido come Netflix, ancora ai suoi primi albori.

Dopo la mancata regia del nuovo adattamento di It, Fukunaga torna a dirigere interamente un prodotto televisivo, tre anni dopo, ancora una volta con Netflix. Una serie originale, ideata dallo stesso Fukunaga insieme a Patrick Somerville, sceneggiatore di The Leftlovers e The Bridge, che prende il titolo di Maniac. Un termine che lascia pochi dubbi sull’entità della serie, infatti seguiamo le vicende Owen, un’uomo con disturbi mentali che soffre di allucinazioni, così come Annie, una ragazza che vive alla giornata, dipendente da droghe. I primi due episodi di Maniac, e in parte anche il terzo, non sono altro che un preludio alla miniserie, nel primo avremo un’introduzione al personaggio di Owen, mentre nel secondo a quello di Annie, le cui vite irrimediabilmente, e ovviamente, finiranno per mescolarsi. I due prenderanno così parte a un programma di un’azienda farmaceutica e vivranno delle immaginarie, ma psicologicamente rilevanti, avventure. 

Da qui in poi Maniac si trasforma in una sorta di serie antologica, dal quarto episodio infatti i due protagonisti vestiranno i panni di personaggi differenti, con storie apparentemente slegate dalla narrazione principale della serie, ma che non sono altro che manifestazioni del subconscio dei protagonisti, nonché esternazioni dei loro traumi. Si passerà dalle peripezie per il furto di un lemure di una volgare coppia della Long Island degli anni ’80, che tanto rimanda ai film dei fratelli Coen, per humor e violenza; a una coppia che assiste a una seduta spiritica negli anni ’40, in pieno noir più consono allo stile di Fukunaga, per poi battere il genere mafioso, spy e fantasy. Fukunaga sembra non decidere precisamente la sua identità in questa opera, dimostrando sì un’ottima versatilità, ma forse una mancanza di originalità. Attinge così a opere e universi già visti. Se le sedute del programma scientifico, la lettura dei traumi dei protagonisti che in coppia si muovono all’interno della propria immaginazione, ricorda ampiamente il cult di Michel GondryEternal Sunshine of the Spotless Mind; l’ausilio di un’immaginario futuristico del cinema degli anni ’80, non è dissimile dall’anacronismo di pellicole di Terry Gilliam come Brazil. 

Oltre a una confezione fortemente cinematografica, dagli ottimi effetti speciali a una fotografia e scenografia che, soprattutto nei frangenti dello studio scientifico, strizza l’occhio allo stile di Wes Anderson; Maniac possiede anche un cast di nomi ben noti, in alcuni casi al debutto televisivo. Jonah Hill, nei panni di Owen, una brillante Emma Stone, che veste i panni di Annie, probabilmente il personaggio meglio sviluppato e giustificato, e i comprimari Justin Theroux, Sonoya Mizuno e la grandiosa Sally Field, nel doppio ruolo della psicologa Greta Mantleray, e del computer/entità dietro l’intero esperimento a cui si sottopongono i protagonisti, un HAL 9000 che rievocherà frangenti simili a quelli di 2001: Odissea nello spazio.

Tra il già citato Gondry e Christopher Nolan, con il suo Inception, anche Fukunaga mette in atto un esperimento cinematografico, ma a loro differenza non pienamente riuscito. Troppo è già visto e preso in prestito: si espone una morale di un futuro non troppo lontano, in realtà estremizzazione del presente, dove i rapporti sociali sono inesistenti, tanto da richiamare dei sostituti, finti amici o finti mariti, a volte defunti, come in Alps di Yorgos Lanthimos; e dove siamo invasi e manipolati dalle pubblicità e ricadiamo vittime delle sperimentazioni; e non basta. Il trauma, e quindi il suo superamento, è di fatto il leitmotiv di Maniac; radicato e agente condizionante delle vite di questi ennesimi outsider, che soltanto dopo un difficile percorso arriveranno alla conclusione che nessuna pillola, radiazione o artefatto dell’industria può sostituire il valore di un rapporto umano, di un’amicizia pura e semplice. Owen e Annie arriveranno a comprendere che l’uno può aiutare l’altro a rinascere.

VOTO: 6.5/10


Pubblicato

in

da