Venezia 75: Van Gogh – At Eternity’s Gate – La recensione del biopic con Willem Dafoe

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Di Daniele Ambrosini

At Eternity’s Gate torna a parlare di quella parte della vita di Van Gogh che tutti conosciamo, ripercorrendo il periodo più noto all’interno della biografia del pittore olandese, quei due anni (1888-89) trascorsi prima ad Arles a dipingere e successivamente nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rèmy-de-Provence, poco prima della sua morte.

Julian Schnabel non è interessato a comporre un biopic tradizionale che ripercorra la vita di Van Gogh in modo lineare, ma è piuttosto spinto dalla voglia di rielaborare e di mostrare sotto una luce nuova eventi significativi e rappresentativi della biografia del pittore, noti anche attraverso le famosissime tele realizzate durante il periodo (relativamente breve) preso in esame da Schnabel. 
Ho vissuto tutta la vita da solo in una stanza, ho bisogno di uscire e di dimenticarmi di me stesso” dirà il Van Gogh magistralmente interpretato da Willem Dafoe nel corso del film, spiegando in maniera impeccabile la compenetrazione di necessità artistiche e personali insite nel processo pittorico dell’autore; perché At Eternity’s Gate è a tutti gli effetti un film sul processo creativo. Le ampie sezioni del film dedicate alla pittura sono infatti specchio dell’animo dell’artista, che è ciò a cui Schnabel è realmente interessato: il regista vuole cogliere quel “qualcosa” dentro di sé che Vincent sente il bisogno di tirare fuori con la sua arte, ma che non riesce mai realmente a comprendere, e questo è possibile solo immergendosi completamente nel suo mondo, tentando di rielaborare questo bisogno viscerale di creare.
Schnabel, anch’egli pittore, coglie l’essenza della pittura anticonvenzionale di Van Gogh e tenta di rappresentarla visivamente, riuscendo a dare una prospettiva nuova e del tutto inedita ad una storia ampiamente conosciuta. Utilizza insoliti e compulsivi movimenti di macchina nel tentativo di liberarsi dagli schemi compositivi comuni e rappresentare visivamente l’animo inquieto del suo protagonista, innovatore alla ricerca costante di un punto di vista nuovo ed estremamente personale. Schnabel ambisce ad essere all’altezza, come a volersi confrontare con il modello pittorico attraverso gli strumenti offerti dal mezzo cinematografico, spesso e volentieri osando e sperimentando soluzioni registiche coraggiose ed inaspettate – non si vedeva un uso della soggettiva così sapiente ed efficace dai tempi del suo Lo scafandro e la farfalla. Coadiuvato da una fotografia incredibilmente attenta, che sa sfruttare al meglio le numerose possibilità offerte dalla luce naturale – elemento centrale nella pittura di Van Gogh che ne studiava gli effetti e le variazioni – e che decide sapientemente di virare ad una gamma cromatica vivace, perfettamente in linea con il modello di riferimento, Julian Schnabel realizza un film visivamente intrigante ed incredibilmente audace.

At Eternity’s Gate segue per buona parte un Van Gogh solitario, restituendoci un ritratto incredibilmente intimo dell’autore. Ai fugaci dialoghi spetta il compito di ricostruire il complicato rapporto di Vincent con il mondo esterno, che appare in più occasioni avverso quanto quello interiore. C’è una scena nel film in cui Van Gogh, sentendo il bisogno di dipingere, realizza in breve tempo il ritratto di una donna che stava posando per l’amico Gauguin; non solo la donna si sente violata dalla foga quasi violenta con cui l’artista ha “rubato” la sua immagine, ma pure Gauguin lo critica per la qualità della sua pittura: in questa scena, c’è tutta l’energia distruttiva dello scontro di questi due mondi, quello interiore e quello esteriore, apparentemente inconciliabili tra loro. È proprio questa forza negativa ad essere alla base del processo creativo all’interno del film. C’è tanta attenzione a tutte quelle piccole cose che rendono speciale l’arte pittorica, quanta ce n’è nella rappresentazione di Vincent, che qui diventa personaggio estremamente umano in lotta con sé stesso. 

L’unico vero appunto che si potrebbe fare a At Eternity’s Gate è quello di aver dedicato troppo spazio all’esposizione del manifesto artistico post-impressionista nelle scene in cui è presente il Paul Gauguin interpretato da Oscar Isaac, piuttosto che all’approfondimento dal rapporto che intercorreva tra i due artisti che sicuramente sarebbe stato un valore aggiunto ad una sceneggiatura tutto sommato molto equilibrata, sorretta dalla convincente interpretazione di Willem Dafoe. Barbera annunciando la presenza del film in concorso ci aveva avvisati che d’ora in avanti non saremmo più stati in grado di immaginare Van Gogh con un volto diverso da quello di Dafoe, ed aveva ragione.

VOTO: 8/10


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