Roma 2018: Se la strada potesse parlare – La recensione del nuovo film di Barry Jenkins

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Di Simone Fabriziani

Tish (Kiki Layne), una giovane donna di Harlem, si innamora di Fonny (Stephan James). La loro relazione sembra andare per il verso giusto fino al giorno in cui Fonny viene arrestato con l’accusa di aver violentato una donna. Incinta, Tish intraprenderà una dura corsa contro in tempo per provare l’innocenza di Fonny prima che il loro figlio venga al mondo. Tratto dal romanzo omonimo di James Baldwin, profeta letterario dell’Harlem Renaissance statunitense, Se la strada potesse parlare arriverà nelle sale italiane il prossimo anno con la distribuzione di Lucky Red.


Il terzo film scritto e diretto dal premio Oscar Barry Jenkins continua con intima compostezza la poetica del cinema espressionista dell’autore statunitense, sempre equilibrato dunque tra espressione composita dei colori ed emotività dei suoi protagonisti, e il racconto della vita quotidiana delle piccole cose con focus particolareggiato sul punto di vista della comunità afro-americana. Dopo l’intimistica invettiva contro il pregiudizio maschilista nello straordinario Moonlight, stavolta Barry Jenkins torna indietro nel tempo (siamo negli anni ’60) ed adatta il rivoluzionario romanzo di Baldwin “If Beale Street Could Talk” non abbandonando mai definitivamente la sua cifra stilistica sopracitata, profetizzandosi come uno tra i maggiori cantastorie per il grande schermo di love stories a tutto tondo.


La tenera e semplice storia di amore tra la diciannovenne Tish e il ventiduenne Fonny è in questo caso il contraltare ad un’altra storia, più grande dei due giovani protagonisti, la storia di una condizione storica e sociale, di un male tutto americano e di un desiderio di integrazione e di normalità negato; Se la strada potesse parlare è la storia universale della condizione della black community negli Stati Uniti d’America degli anni ’60 raccontata però utilizzando la lente focale delle piccole cose, del particolare. Sono gli elementi narrativi della vita famigliare, dell’innamoramento, della prima volta, dell’emozione degli sguardi d’amore, del desiderio di un tetto e di un tavolo dove poter mettere su famiglia a scaldare il cuore dello spettatore. Come nell’acclamato film precedente, anche in questo caso Barry Jenkins si candida idealmente a privilegiato interlocutore della comunità afro-americana di ieri e di oggi sul grande schermo, ereditando, seppur discostandosene, il bagaglio cinematografico di apripista come Spike Lee  e , più recentemente, Steve McQueen.
Adottando dunque un atteggiamento di narrazione che va da particolare all’universale, dallo smaller al bigger, Barry Jenkins firma una acuta ed intelligente invettiva contro lo stato di cose, di ieri e di oggi, del sistema giudiziario (e più in generale dello status quo) americano, nemico giurato di una comunità quella black che da sempre anela al desiderio di integrazione, di equanimità, di giustizia.
VOTO: 7,5/10