Black Mirror: Bandersnatch – La recensione del primo film interattivo di Netflix

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Di Pietro Lafiandra

C’è stato un breve periodo, all’inizio degli anni ’90, in cui nel panorama cinematografico si era accarezzata l’idea di rompere con la struttura su cui — al netto delle varie rivoluzioni che si sono succedute nel corso degli anni — la pratica spettatoriale si era costituita sin dalla prima proiezione pubblica dei Fratelli Lumière nel 1895: un pubblico passivo tra un proiettore e uno schermo.

Con I’m Your man (1992) la Interfilm di Bob Bejan (una società di produzione multimediale) aveva creato un mind game cinematografico attraverso cui il pubblico delle sale avrebbe potuto interagire con la storia decidendo lo svolgimento dei momenti critici della pellicola grazie a un sistema a pulsanti. Il tentativo di Bejan era quello di introdurre la narrazione reticolare tipica del videogioco in un apparato costruito, salvo rare eccezioni (Pulp Fiction, Inland Empire, Memento erano ancora in là da venire) su una narrazione che, pur slegata dalla produzione “fordista” del cinema classico hollywoodiano, con le sue rigide griglie di introduzione, sviluppo e conclusione, richiedeva ancora un certo grado di linearità. Naturalmente, la tecnologia non era ancora pronta ad accogliere la novità, così le lunghe stasi a cui era obbligato il dispiegarsi del film e la sua ingenuità tecnica-estetica indispettirono una critica già di per sé reazionaria e solita accogliere malamente le novità (era successo con l’introduzione del sonoro, del colore, del cinema digitale e oggi con Netflix): i pochi film prodotti da Bejan risultarono un completo insuccesso.
Da quel momento in poi l’idea di introdurre nelle sale i film interattivi è stata pressoché accantonata e, fatta eccezione per un esperimento relativo alla sola forma e non al contenuto come il D Day di Dogma 95, svoltosi la notte di capodanno 1999-2000, quando gli spettatori della tv danese poterono scegliere l’inquadratura attraverso cui guardare un film collettivo semplicemente cambiando canale col telecomando, si è dovuto aspettare la rivoluzione digitale e la convergenza mediatica per tornare a parlare di film interattivi. Certo, non si tratta di distribuzione cinematografica, si tratta di Youtube, non si tratta di telo da proiezione ma di smart-phone, smart-tv e computer eppure la distribuzione di un episodio speciale interattivo da parte di Netflix — proprio ora che i gamebooks stanno trovando nuova vita — che introdurrà la nuova stagione di Black Mirror segna una frattura possibile in ambito produttivo e una svolta importante in quello che fino ad oggi era stato un campo di sperimentazione per il provider statunitense: da prodotti interattivi soprattutto children oriented (es. Il Gatto con gli stivali – Intrappolato in una storia epica), alla (costosa) produzione di un episodio di una serie tv cardine per la serialità pop contemporanea che, fino a pochi anni fa, era considerata “l’eccellenza televisiva britannica”. 
Con Bandersnatch, Black Mirror continua quel processo di meta-autoriflessione che l’ha caratterizzata sin da Messaggio al primo ministro (2011) ma che è stato esasperato con l’acquisizione da parte di Netflix in puntate come San Junipero, dove l’archivio delle memorie individuali pare svolgere la stessa funzione dei media digitali contemporanei, e soprattutto come Black Museum, dove, tra scienziati pazzi e tecnologie mortifere, Charlie Brooker dà vita ad un museo egoriferito in cui Black Mirror riflette su Black Mirror, sul suo essere contenitore, sul suo essere forma. 
E proprio dalla forma deve obbligatoriamente partire l’analisi di un episodio interattivo perché, e questo è uno dei limiti del progetto, in Bandersnatch la forma è contenuto. Nel presentare l’apparentemente classica storia di un giovane programmatore di videogiochi (Stephan) che sviluppa l’adattamento di un romanzo (Bandersnatch appunto), Black Mirror sposta l’attenzione sulla propria struttura inserendo degli easter egg (il poster di Metalhead, il simbolo dell’Orso Bianco dell’omonima puntata) comprensibili solo a chi già è fan della serie, dall’altro analizza invece il rapporto tra lo spettatore e il prodotto interattivo: rappresentando nella diegesi le stesse logiche che governano la forma del racconto, il suo intreccio, Bandersnatch incentra la narrazione e i dialoghi sull’illusione del libero arbitrio di Stephan, un’illusione che, anche per lo spettatore, si riduce sia ad una serie selezionata di scelte che portano a vicoli ciechi nei quali è impossibile proseguire se non resettando il sistema, sia a finali diversi ma limitati nel numero. Bandersnatch si basa quindi sulla rindondanza, sul flashback è il dejavù, e non potrebbe essere altrimenti, perché la tecnologia non sarebbe ancora in grado di digerire altro. Di quest’ultimo prodotto matrioska, ideato da Charlie Brooker e Annabel Jones, non sono quindi tanto essenziali gli aspetti contenutistici quanto quelli grafici ed estetici. La prima variazione formale riscontrabile è relativa all’interfaccia che elimina la barra di scorrimento e la possibilità di muoversi liberamente all’interno del prodotto — in quanto il film non ha una durata specifica ma una struttura a rete —, sostituita da due pulsanti circolari che permettono lo spostamento avanti o indietro nel prodotto di soli dieci secondi, il che comporta due conseguenze fondamentali: la prima è una difficoltà di esegesi del film in quanto tale (ogni visione di Bandersnatch costituisce un unicum) come della sequenza singola che, per essere decostruita, richiederebbe una ripetuta visione e un continuo ritorno sulla puntata intera. La seconda è, paradossalmente, la maggior attenzione con cui si è invitati a guardare: nonostante Bandersnatch sia un prodotto di superficie e nonostante la visione su tablet e pc invogli a una visione distratta per la multiemedialità del supporto e per l’ambiente (spesso casalingo, illuminato, confuso) in cui questo è inserito, Netflix richiede una visione continua, attenta e profonda. Il tempo per la selezione delle azioni è limitato e, in caso di mancata scelta, sarà l’algoritmo a scegliere in vece delle spettatore. Questi si muove orizzontalmente tra una sequenza e l’altra, tra una scena e l’altra, potendo scegliere tra due opzioni differenti, ma sono sempre gli stessi nodi cruciali su cui deve tornare e ritornare per portare a compimento la storia quando questa giunge a un termine prematuro senza lasciare la possibilità del loop, permettendo di fatto di esplorare sì della realtà parallele, ma comunque subordinate a una linea principale inscalfibile.

Sebbene lo spostamento del fuoco sulla sola forma rappresenti un inevitabile passo in avanti per quello che si è proposto come il contenitore della forma dei nuovi media e nonostante sia apprezzabile il tentativo di Brooker di non voler solo rappresentare la nuova forma ma anche produrla, quest’attenzione ossessiva attorno alle logiche del prodotto finisce per ridurre lo stile a una propaggine del gioco. Si è ormai lontani sia dalle regole della serie episodica, che antologica, che serializzata. Si è forse più vicini all’ultima stagione di Twin Peaks, ma quando forma e contenuto si compenetravano nell’occhio estetico di Lynch per testare i limiti del mezzo televisivo di cui ancora rispettava le dinamiche principali (durata, continuità del flusso, cadenza settimanale) qui i limiti narrativi vengono abbattuti, incistando un episodio-non episodio che difficilmente può essere inscritto nel corpus, per quanto fluido, della serie intera.
I produttori sembrano aver studiato gli errori di Bejan e i metodi per fluidificare il modello interattivo sono chiari. Nessun freeze frame, nessuna pausa: tempo di scelta limitato, la narrazione che continua a fluire e le inquadrature ad alternarsi per evitare di incappare in fasi stagnanti, in modo da donare un “effetto flusso”. Per fare ciò, cercando quindi questa fluidità, Bandersnatch riduce il plot al minimo, faticando a costruire una narrazione intrigante e un’idea di cinema univoca, una precisa estetica dell’episodio, prodigandosi nel tentativo di far coincidere l’occhio dello spettatore con quello del protagonista, portandoli a dialogare, a riflettere sulle logiche di dominio (il protagonista è sottoposto alla dittatura dello spettatore e lo spettatore alla dittatura di Netflix in un circuito chiuso). Saltando avanti e indietro nel tempo, uscendo ed entrando dalla storia, si viene a creare un  patchwork, un lavoro di bricolage privo di nessi spaziali, ammiccante — le citazioni di Matrix e Donnie Darko, il trip da allucinogeni — ed eccessivamente frammentato di cui lo spettatore gode solo se pronto a riflettere sul suo statuto e sui limiti imposti dalla propria visione del cinema, sui modelli acquisiti, sugli usi e costumi delle sue pratiche, sulle sue aspettative e consuetudini e sul portato culturale che lo porta a compiere una decisione piuttosto che un’altra. Cos’è che lo spettatore vuole vedere rappresentato sullo schermo? Come pensa che debba proseguire o finire una storia? Cos’è pronto o meno a vedere in un dato momento? E’ disposto, secondo la sua intimità, ad infliggere del dolore fisico, seppur nella finzione? 
Le dinamiche di interesse di Bandersnatch risiedono nel gioco. nei paradigmi, nella sua capacità di autorappresentarsi, nei contorni sfumati tra il reale e il finzionale, ma sono ancora molte le problematiche e le domande relative al prodotto interattivo: qual è il confine tra cinema e gioco? Cosa accadrebbe se si provasse a costruire una narrazione classica? Si riuscirebbero ad evitare le stasi? Si potrebbero creare due lunghe storie parallele senza lacune e con coerenza? E’ possibile creare un film interattivo che esuli dalla metanarrazione e dalla partecipazione ludica con lo spettatore? Il cinema ha ancora bisogna di un proiettore, uno schermo e un pubblico passivo al centro? Lo spettatore ha ancora bisogno di essere investito dall’immagine o vuole davvero essere artefice delle sue scelte? Forse resterà un prodotto a se stante, forse è proprio il piacere dell’impotenza di fronte alle immagini che allontana l’dea di un cinema interattivo, ma chi scrive pensa che qualsiasi sia la risposta a queste domande, il merito dell’esperimento attuato da Charlie Brooker sia quello di aver rimarcato — in un periodo storico in cui il dibattito intorno alla distribuzione cinematografica sembra articolarsi in prese di posizione aprioristiche sulla distribuzione o meno nelle sale, dimenticando che, poco importa su che supporto e in che luogo, la questione centrale sia che il film sia visto, che susciti delle reazioni e che venga dibattuto — la centralità dello spettatore nella ricezione (e quindi anche nella scrittura e produzione) di un film, della sua emozionalità, della sua storia, della sua cultura, perché, come scrive Borges ne Il Giardino dei sentieri che si biforcano “… ogni cosa a ognuno accade precisamente, precisamente ora. Secoli e secoli, e solo nel presente accadono i fatti; innumerevoli uomini nell’aria, sulla terra e sul mare, e tutto ciò che realmente accade, accade a me”. 
VOTO: N.C.



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