Il castello di vetro – La recensione del film con Woody Harrelson e Brie Larson

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Di Giuseppe Fadda

Il castello di vetro, romanzo autobiografico della giornalista americana Jeannette Walls, fu un enorme successo di critica e di pubblico, vendendo 4 milioni di copie in tutto il mondo e guadagnandosi un posto fisso (che detiene ormai da 13 anni) nella classifica dei best-seller del New York Times. Il suo omonimo adattamento cinematografico non ha ricevuto un’accoglienza altrettanto calorosa e ha raccolto pareri contrastanti da parte della stampa americana. Ed effettivamente Il castello di vetro è anche un film frustrante. Non perché sia brutto, anzi, vi si possono riscontrare anche numerosi pregi, ma perché nel complesso non riesce a sfruttare a pieno il suo ottimo materiale di partenza: è un buon film, ma, con simili premesse, buono è comunque deludente.

La narrazione del film si sviluppa alternando parallelamente
due piani temporali. Il primo è incentrato sull’infanzia di Jeanette, vissuta
in auto e in baracche, e la sua crescita sotto l’influenza dei suoi affettuosi
ma problematici genitori. Il secondo invece descrive la vita di una Jeanette
ormai adulta, apparentemente soddisfatta ma in realtà ancora danneggiata dai
suoi traumi d’infanzia, che si vede costretta ad affrontare quando i suoi
genitori si trasferiscono inaspettatamente a New York. A livello di struttura,
il film è impeccabile: grazie al lavoro eccezionale del direttore del montaggio
Nat Sanders (Moonlight), passato e
presente si alternano in maniera fluida e coerente senza che i continui salti
temporali spezzino la narrazione. Il problema è che tra le due storyline c’è
un’enorme discrepanza qualitativa e la metà del film dedicata ai flashback
risulta molto più riuscita rispetto a quella di ambientazione contemporanea.

Un aspetto dei flashback che colpisce immediatamente è la
cura minuziosa per i dettagli: le meravigliose scenografie di Sharon Seymour (Argo) riproducono con
autenticità i luoghi descritti dalla Walls e giocano un ruolo chiave nella
rappresentazione dell’ambiente familiare della protagonista, così caotico
eppure così amorevole. Anche la fotografia di Brett Pawlak è degna di nota senza mai essere appariscente: la sua
grandezza sta proprio nel minimalismo e nell’intimità che porta alla storia. Ma
ciò che eleva questa sezione del film è la capacità del regista e
co-sceneggiatore Destin Daniel Cretton (Short
Term 12) di guardare alle figure dei genitori in maniera ambivalente, senza
essere eccessivamente indulgente né eccessivamente severo. Il suo approccio
empatico e umano cattura sia la bellezza che l’orrore di questi due complicati
personaggi, in particolar modo quello del padre alcolizzato, Rex, interpretato
da un meraviglioso Woody Harrelson.
L’attore riesce a mostrare ogni sua singola sfumatura, il suo amore sconfinato
per i figli, il suo intelletto brillante e peculiare ma anche la sua natura
imprevedibile che lo porta a momenti di inaspettata crudeltà. Il ruolo dell’eccentrica
madre Rose Mary è forse ancora più complicato e a volte sconfina nella
caricatura, ma riesce ad avere una sua coerenza di fondo grazie
all’interpretazione di Naomi Watts,
che porta una dimensione tragica a questa donna incapace di ammettere le
proprie colpe e quelle del marito. Una menzione speciale va anche ad Ella Anderson, che interpreta Jeanette
da bambina con grande credibilità e presenza scenica.

Le scene ambientate nel presente conservano la stessa attenzione
per i dettagli che caratterizzava l’altra metà, ed è particolarmente efficace
il contrasto tra le ambientazioni di quest’ultima e l’appartamento newyorkese
della Jeanette adulta: un luogo ordinato, esteticamente piacevole, eppure privo
di qualsiasi calore umano. È la sceneggiatura a penalizzare questa storyline:
se i flashback erano caratterizzati da uno sguardo empatico e attento alle
sfumature, le scene del presente risultano sterili e il confronto tra i
genitori di Jeanette e il suo blando fidanzato (Max Greenfield) è affrontato in maniera sorprendentemente
semplicistica. La stessa Jeanette è rappresentata come un personaggio passivo,
quasi come se fosse una spettatrice della sua stessa storia: se non lo diventa,
è solo grazie all’ottima prova di Brie
Larson
che riesce a darle carisma e personalità.

Malgrado i suoi difetti, il film riesce ad essere un’esperienza comunque coinvolgente per quasi
tutta la sua durata (forse eccessiva). Si perde definitivamente solo nelle
scene finali, in cui scade nel sentimentalismo perdendo quell’ambiguità morale
che era stata fino a quel momento il suo punto di forza. Il castello di vetro resta un film godibile, a tratti genuinamente
commovente, e il lavoro del suo cast è encomiabile. Ma è un film che funziona
solo in parte, che perde mordente man mano che ci si avvicina al suo climax e,
soprattutto, che non ha una chiara idea su quello che vuole dire.
VOTO: 6.5/10