Il primo re – La recensione del rivoluzionario kolossal italiano di Matteo Rovere

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Di Massimo Vozza

La volontà di provare a rinnovarsi: senza dubbio il cinema italiano, ogni anno, ci offre alcuni titoli che ci spingono a intraprendere questo discorso ma nessuno di questi forse si era spinto a tanto quanto Il primo re di Matteo Rovere (Veloce come il vento), operazione produttiva enorme, atipica di questi tempi nel nostro paese, che riprende direttamente le origini che ci accomunano, quelle a metà strada tra l’epico e il primitivo.
Al film non interessa tanto raccontare la superficie, ossia l’epopea di Romolo e Remo che precede la fondazione di Roma, ma le tematiche di fondo, tra le quali la fratellanza e il rapporto con la natura e il divino, eppure qualcosa si perde, soprattutto nel passaggio dalla prima alla seconda parte del racconto: nonostante una sequenza estremamente e inutilmente lunga durante il periodo di schiavitù dei due fratelli e la collaborazione che li porterà a liberarsi, l’inizio mette in campo i propri temi universali puntando particolarmente sulla sua estetica, che fa tornare alla mente a volte Malick e altre il Revenant di Iñárritu, segnata in particolar modo dalla fotografia di Daniele Ciprì (seppur sminuita da una colonna sonora originale incerta), finendo però col proseguire più tipicamente come un film di genere, commercialmente più appetibile, certo, ma a scapito del filosofico, dell’autorialità e, purtroppo, della coerenza narrativa.
Così la fuga di Remo e del moribondo fratello Romolo diviene da viaggio esistenziale nella foresta, dove la natura mostra la sua totale ambivalenze (colei che dà sostentamento ma che può anche uccidere) e il metafisico che incombe con le sue contraddizioni, tra benevolo e malevolo, a un susseguirsi di eventi eccessivamente repentini, i quali comprendono una presenza maggiormente massiccia di scene di combattimento; da che il passaggio, non soltanto da moto a luogo ma anche e soprattutto interno ai personaggi, faceva sentire tutto il suo peso, adesso diviene superfluo a favore di scene madre continue a volte non necessarie: già il monologo di Remo che si erge a re dei suoi compagni di viaggio aveva fatto perdere quella magia iniziale dove la lingua protolatina scelta per il film viveva del proprio suono indipendentemente dal significato delle parole che venivano pronunciate.
Alessandro Borghi nel ruolo di Remo, unico protagonista della storia, regge degnamente sulle sue spalle la parte recitativa del film anche nelle sequenze meno riuscite in quanto a scrittura, mentre Alessio Lapice (Romolo) non riesce a risultare credibile nelle poche scene nelle quali gli viene concesso spazio e il resto del cast maschile viene ridotto più a una mera presenza; degna di nota anche Tania Garribba nel ruolo di Satnei, unica presenza femminile a contare davvero in termini narrativi e interpretativi.
L’operazione è quindi non realmente riuscita, a causa di mancanze di equilibrio e una durata eccessiva, seppur la carne al fuoco sia effettivamente parecchia; un rinnovamento c’è stato ovviamente e la volontà e il coraggio non sono mancati, peccato ci si sia però ritrovati alla fine tra due sponde, senza decidere veramente da che parte il caro cinema italiano vada rifondato.
VOTO: 6/10


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