Il sotterraneo dell’androide: Splice (2009) di Vincenzo Natali

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Di Pietro Lafiandra

La prima inquadratura di Splice è un motivo ricorrente nei drammi e negli horror ospedalieri: una soggettiva che coincide con quella di un paziente in condizioni critiche che, con lo sguardo rivolto verso il soffitto, sdraiato sul lettino d’ospedale, sente delle voci stroboscopiche preoccupate spegnersi e accendersi ritmicamente lontano e vicino da lui, alternate al suono acuto del defibrillatore, e vede le silhouette dei medici sfuocate dalle luci al neon bianche affollarglisi agitate intorno per mantenerlo in vita.

A tutto ciò, nella sequenza iniziale, si aggiunge un cordone ombelicale reciso con un taglio netto, il posizionamento del corpo del paziente in un’incubatrice, due medici-scienziati che si avvicinano congiuntamente a guardare la propria creatura con le teste leggermente inclinate come l’iconografia degli innamorati li obbliga e infine due frasi, una affermazione dell’altra (“è perfetto. È semplicemente perfetto”) che chiariscono sin dalle prime inquadrature come il film di Vincenzo Natali sia, prima che un body horror movie e un monster movie, un dramma famigliare, un adattamento pop contemporaneo della tragedia di Edipo. Infine, la rivelazione: attraverso la macchina da presa, lo sguardo dello spettatore coincideva con quello di un mostro.
La bestia ibrida, nascita, amore e morte sintetizzati sin dalla prima inquadratura, a suggerire il pensiero del regista, sviluppato per tutto il film, che le necessità dell’uomo siano le stesse di ogni altro animale: la ricerca dell’amore, la tendenza alla distruzione/autodistruzione e la riproduzione narcisistica di se stesso; proprio per questo, l’uomo chimera per mezzo dei suoi istinti (quello riproduttivo in particolare) assume nel film del regista italo-americano lo stesso valore ontologico e la stessa dignità dell’essere umano. 
Elsa (Sarah Polley) e Clive (Adrien Brody) non sono solo colleghi e scienziati super star, sono anche una coppia datata e senza figli che lascia che i suoi desideri genitoriali si infiltrino nell’ambito lavorativo sovvertendone priorità, obblighi e leggi. 
Le prime battute che i due si scambiano non sono legate né all’esito delle ricerche né al futuro dei progetti di chimerizzazione che li attendono ma alla tradizionale disputa coniugale sulla scelta del nome del figlio, in questo caso una creatura tra il vermiforme e l’escrementizio: “Mi piace Melvin”, “è molto più di un Melvin” dibattono i due fino a trovare un accordo: “Ok, allora vada per Fred”, dice Clive mentre Elsa imbraccia una videocamera digitale per riprendere l’estrazione dell’ibrido dall’incubatrice, dando così vita a un’ ulteriore convenzione della rappresentazione della vita famigliare: l’home movie (un termine “spaziale” di per sé, che indica in questo caso la penetrazione della dimensione privata in quella lavorativa), il primo momento in cui si palesano contemporaneamente le due accezioni di “riproduzione” che si snodano nel corso di Splice. L’umano narcisismo di Elsa e Clive, infatti, prende corpo nell’idea di “riproduzione” (a livello narrativo) come “perpetuazione della specie” e (a un livello metanarrativo) come di “duplicazione di se stessi attraverso il cinema”. 
Fred è un organismo maschio contenente geni animali e vegetali che viene costretto alla convivenza con Ginger, l’organismo femmina precedentemente sviluppato dalla coppia. All’interno di una teca che ne permetta il controllo e l’osservazione le due creature utilizzano la propria lingua floreale per attuare un imprinting amoroso ma, a film inoltrato, durante la presentazione ufficiale dei risultati dell’esperimento, Ginger evolve in un essere maschio, la lingua si trasforma in un aculeo e dà vita con Fred a una lotta truculenta per la supremazia in diretta nazionale che si risolve in una “doccia di sangue” sul modello di Shining (Stanley Kubrick, 1980). 
La nascita di Fred non è però sufficiente per Elsa e Clive che mirano alla creazione di un uomo-animale nonostante l’esplicito divieto da parte dei supervisori della società per cui lavorano (la Nucleic Excharge Research and Developement, N.E.R.D): “se Dio non volesse che esplorassimo il suo dominio, perché ci avrebbe dato la mappa?” si chiedono in un’intervista alla testata Weird riproponendo l’intramontabile questione della moralità in ambito scientifico. 
Ufficialmente le loro ricerche avveniristiche sarebbero volte alla “cura del Parkinson, dell’ Alzhaimer, del diabete e anche di qualche forma di cancro”, ma la sensazione che attanaglia lo spettatore sin dai primi minuti è che qualcosa di rimosso dall’inquadratura prenda corpo nel non detto tra i protagonisti: l’impulsività e l’aggressività con cui Elsa sceglie di fondere il proprio DNA con quello animale dà credito a quest’ipotesi. 
Il “non detto” è che Elsa non ha mai voluto un bambino vero “per paura di perdere il controllo”, contrariamente allevarne uno come esperimento in laboratorio le avrebbe permesso di dominarlo, monitorarlo. La nascita di Dren (Delphine Chanéac), un ibrido uomo-animale di sesso femminile, è per lei il soddisfacimento di un desiderio atavico, quello della maternità, dragato dalle sue responsabilità.
“Ma perché cazzo volevi crearla?” Clive accusa Elsa, “io le voglio bene” risponde lei.
Nel momento dello splice genetico con cui Dren viene creata Natali rivela con un primo piano di Sarah Polley la possessività, la brama egoistica che la donna sviluppa nel portare l’ibrido alla luce nonostante sia Clive a (letteralmente) premere il bottone per procedere con l’editing.

Le posizioni etiche e le emozioni dei due verso l’esperimento si polarizzano: nel seguire lo sviluppo del feto, nel calcolarne i segnali di vita, Elsa empatizza e si affeziona a Dren, sviluppando un atteggiamento materno verso quella che assume sempre di più i contorni di una figlia adottiva. Una volta nata ne sceglierà anche il nome, Dren per l’appunto, entrando in conflitto con il marito che, intimorito, si ostina a chiamarla “prototipo”. In questo contesto anagrammare e letteralmente rovesciare il nome dell’azienda per dare un nome all’essere assume un importante valore semiotico, ulteriore indice della supremazia della sfera affettiva/possessiva/narcisistica di Elsa sul distacco raziocinante che uno scienziato dovrebbe esercitare nell’approcciarsi all’esperimento.
Clive cova ostilità e un crescente rifiuto verso Dren: come Edward ne L’isola delle anime perdute definiva “cose” gli ibridi, così lui non esita a definire “un errore” il frutto del suo stesso esperimento, allontanandosi dal fanatismo e dall’autocompiacimento di Moreau ma al contempo mostrando il carattere insicuro e contraddittorio che lo porterà a provocare una frattura nella “famiglia”.
Come Clive, lo spettatore non riesce a empatizzare con Dren nonostante le sue fattezze umanoidi: il suo corpo è più vicino a un prodotto artistico che a un prodotto di editing genetico. Le sue fattezze sono il frutto di una compenetrazione calcolata di DNA differenti e la sua nascita di una lunga analisi di dati, innesti, spostamenti, recisioni dove poco o nulla è lasciato al caso. Il suo corpo non commuove ma anzi terrorizza, il volto disturba e repelle. 
Nonostante il DNA umano che scorre nel sangue di Dren, l’essere non è il frutto di un parto naturale né di una sua complicazione e non viene così mai percepita dallo spettatore come un proprio simile: più vicino a un essere mitologico o a un alieno che a un uomo, Dren è un freak poiché “contesta i confini tradizionali tra maschio e femmina, sessuato e asessuato, animale e umano, grande e piccolo, io e altro e quindi tra realtà e illusione, esperienza e fantasia, dato di fatto e mito”22, solo che, proprio a causa della percezione continua che lo spettatore ha del suo carattere non umano, della sua “innaturalezza” e della sua essenza ambigua, la sua presenza sullo schermo risulta pruriginosa e piuttosto che affrontarla si preferirebbe la sua eliminazione. 
Nascosta perché l’esistenza possa rimanere un segreto, nel primo turning point del film Dren sta morendo per delle complicazioni legate a un’insufficienza respiratoria e si assiste a Clive afferrarla per il collo e tenerla ostinatamente sott’acqua all’interno di una vasca da bagno non curante dei suoi lamenti animaleschi. Quando Dren rivela di possedere un apparato respiratorio simil-branchiale si viene lasciati col dubbio sulle intenzioni di Clive: amore o morte? Sono questi i due poli che Natali identifica in ogni essere vivente come diretta emanazione del maschile e del femminile che convivono in tutti noi. 
Su Segnocinema, all’uscita del film, si diceva:
I due scienziati attraversano in pochi giorni tutti i clichè legati alle figure genitoriali, dalle nevrosi relegate ai capricci per la pappa fino alla gestione dell’adolescente ribelle. In un film tutto costruito su simbologie sessuali di stampo cronenberghiano Natali punta, però, l’attenzione soprattutto sui complessi di possessione che la giovane Dren prova prima verso il “padre”” e, dopo uno switch sessuale, “verso la madre: l’ibrido infatti grazie al suo corpo mutante sviluppa sia il complesso di Edipo che quello di Elettra riuscendo, oltretutto, a fattualizzare entrambi i desideri che nell’umano restano proibiti e soppressi”. 
Splice è quindi un film sull’esasperazione del rapporto genitore-figlio nonché un film di formazione corporale e sessuale dell’uomo – animale che, nella visione di Natali, è dominato dai medesimi istinti erotici degli uomini, più in generale, e dei genitori nello specifico. 
L’idea del corpo di Dren, spiega il regista “è stata ispirata da una cosa chiamata topo di Vacanti. Era un topo nudo (senza capelli) che sembrava avesse delle orecchie umane che spuntavano dalla schiena. Era un esperimento del MIT. Non era un esperimento genetico, ma lo sembrava. Ed è stata un’immagine tanto scioccante che ho immediatamente sentito che ci fosse un film dentro quel topo”.
A interpretare l’ibrido è Delphine Chaneac che “ha dato a Dren un’anima” e che è stata “decodificata grazie alla CGI in tutti gli stadi precedenti. Per esempio, in ogni passaggio della crescita, la “ragazza” ha sempre gli occhi di Delphine” per mantenere un cardine estetico-emotivo nonostante le difficoltà legate al fatto che l’atto d’ibridazione uomo- animale sia accompagnato dall’ibridazione tra fisico-incorporeo, tangibile-impalpabile, analogico-digitale e Dren “a volte sia completamente digitale, a volte parzialmente a volte per nulla”. 
Le configurazioni corporali della chimera a cui assistiamo sono sostanzialmente quattro:
Dren neonata: più animale che uomo, è un bipede con delle zampe da gallina lunghe, muscolose e affusolate, privo di arti superiori, con il dorso curvo, un cranio ovale ipertrofico, gli occhi neri, vitrei, oblunghi e posizionati ai lati del cranio, due fessure come narici e dei sottili baffi sensoriali. 
Dren bambina: umanizzata, fanciullesca, priva dei baffi. Tarchiata e dalla corporatura massiccia, viene evocativamente ricoperta con un vestitino color carta da zucchero, un colore solitamente abbinato ai neonati maschi, prodromo del sua futura mutazione sessuale. 
Dren adolescente: dall’aspetto rettileo, completamente glabra, priva di capelli, snella, sessualizzata da un leggero seno, ora con un naso umano, con delle labbra carnose, una lingua da serpente e un’accentuata mimica facciale, con delle ali sotto ascellari tra il drago e l’arpia, ha sviluppato una lunga, scorpionesca, coda velenosa che usa come strumento di difesa. 
Dren maschile: dopo la mutazione Dren sviluppa un collo taurino, una muscolatura statuaria, i lineamenti si induriscono, il volto si fa poroso, butterato e la coda fallica, mastodontica e ricca di seme.
Così a queste quattro fasi della corporatura di Dren corrispondono quattro rappresentazioni differenti di perversioni e complessi legati all’erotismo umano, il rumore bianco che percorre tutto Splice fino a manifestarsi nelle sue forme più aberranti (perché visualizzate) nella seconda metà del film, e di cui l’ibrido è il catalizzatore.
Fase orale freudiana: appena nata Dren manifesta tendenze cannibaliche cercando di mordere la madre con il suo unico strumento di contatto (essendo priva di braccia), la bocca. L’unico momento in cui si vede l’ibrido provare del piacere è durante l’ingestione di alcune caramelle cadute dalla tasca di Elsa e nell’atto di essere imboccata dalla ricercatrice con un cucchiaio contenente un intruglio color paglierino, precedentemente rifiutato dalla provetta fallica del padre. 
Voyeurismo: Dren comincia a sviluppare la propria sessualità per imitazione, nell’assistere a Clive ed Elsa consumare un rapporto sul divano. La “bambina”, ombra velata da una telone molto simile a quello cinematografico si avvicina ai due come a volerli dominare e Clive, pur conscio della sua presenza, raggiunge l’orgasmo senza toglierle gli occhi di dosso. Questa scena fa pensare a un un film porno o a una pratica di guardonismo: Dren guarda affascinata e impaurita i due consumare il rapporto e Clive ricambia lo sguardo, come se, nell’atto sessuale, percepisse la sua mostruosità; come se, guardando il mostro attraverso il filtro del telo/schermo questo gli dicesse “io ti conosco! Io sono te!”. 
Complesso di Elettra: la scoperta del proprio corpo avviene in Dren accompagnata da una crescente ostilità reciproca tra lei e la “madre” (un rapporto che degenera nella recisione compiuta da Elsa di parte della sua coda, una volta legatola a un tavolo operatorio come da prassi del torture movie) finalizzata alla conquista del padre. Conquista che si concretizza nella seconda metà del film, quando Dren e Clive hanno un rapporto sessuale violento e mortifero, interrotto dall’arrivo della madre che, sconvolta, scappa. Dren non solo ottiene il fallo del padre, ma addirittura lo fa proprio e lo rielabora attraverso la mutazione di genere. 
Complesso di Edipo: dopo il cambio di sesso, Dren maschio possiede e violenta la madre in un lungo, grottesco coito che si risolve nell’inseminazione della donna, nella morte della/o stesso Dren e di Clive.

Elsa chiede alla chimera: “che cosa vuoi? Che cosa vuoi?” e lui risponde “dentro di te”, prima di penetrarla con la coda, antecedentemente velenosa e ora diventata un fallo aculeo pronto per l’inseminazione. Ancora una volta veleno e sperma, vita e morte. 
Clive ed Elsa si contendono la figlia in un’aberrante menage a trois che, seppur non a un livello letterale, assomiglia a un rapporto incestuoso. Clive dice a Elsa “abbiamo oltrepassato una linea e le cose si sono fatte confuse”, “confuse riguardo a cosa?” risponde lei, “ciò che è giusto e ciò che è sbagliato”. 
Come l’isola del dottor Moreau, lo small world di Splice viene abitato da uomini-bestia irrazionali, egocentrici, patetici e incapaci di esercitare l’autocontrollo. Da un lato Dren è portatrice di un caos decomponente che distrugge il nucleo famigliare e la rappresentazione idealizzata che Clive ed Elsa hanno fatto delle loro figure e dei loro esperimenti, dall’altro è fautrice di un lento e doloroso percorso che inizia col mostro e finisce nel mostro.
Come specchio falsato dei protagonisti, che in Dren si rivedono non a un livello fisico, ma a un livello profondo, la mostruosità diventa “tutt’altro che elemento disgregante, diventa principio di identificazione e riconoscimento” e quindi di ordine. 
Una volta morto Clive, nella sequenza finale del film si vede lo stesso supervisore che aveva negato a lei e al compagno la fusione tra DNA umano e animale proporre a Elsa un’ingente cifra per portare a termine la gravidanza del Dren-maschio e definitivamente dare la vita all’ibrido uomo-animale secondo i canoni considerati “naturali”. Elsa, senza alcuna esitazione, accetta e firma il contratto. 
Quando le viene sussurrato “nessuno ti avrebbe biasimato se non lo avessi fatto. Avresti potuto semplicemente metterci una fine e andare via” lei risponde “qual è la cosa peggiore che può capitare?”. Tradotto: “dopo aver preso coscienza della propria essenza mostruosa, non resta che accettarla e assecondarla per restare in vita, riproducendola, replicandola e moltiplicandola”. 
Allora, alla domanda “chi è il mostro qui? E dove esattamente nello spettro dell’uomo- animale risiede questa mostruosità?” che si pone Rick Groen sul The Globe and Mail la risposta di Natali sembra essere che il vero mostro risieda nell’atto narcisistico del replicare se stessi, che sia attraverso il cinema, l’atto sessuale o l’editing genetico. 

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