Il Trono di Spade – La recensione dell’ottava ed ultima stagione dell’epica serie fantasy

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Di Daniele Ambrosini

Il Trono di Spade, l’amatissima e seguitissima serie della HBO, è finalmente giunta al termine. Dopo quasi dieci anni segnati da trionfi e qualche inevitabile tonfo, gli ultimi episodi avevano il non facile compito di chiudere una storia dal respiro molto ampio, di dare una conclusione, giusta o meno, ai numerosi archi narrativi di Westeros. Ed il risultato è altalenante, come era inevitabile che fosse.

Il problema più grande del Trono di Spade è, da tre anni a questa parte, non tanto la scrittura, di cui comunque è più che lecito lamentare le mancanze qua e là, ma l’impossibilità di soddisfare le aspettative del pubblico. Perché Il Trono di Spade non è più di una semplice serie tv, ma un vero e proprio fenomeno mediatico. La sempre crescente attenzione riservata dal pubblico nei confronti della serie ha reso, soprattutto dal momento in cui ha superato i libri di George R.R. Martin, il lavoro di David Benioff e D.B. Weiss molto difficile. Non solo per l’attenzione quasi maniacale che il pubblico avrebbe inevitabilmente riservato ad ogni singolo movimento di trama che avrebbero potuto ideare, ma anche per la necessità di rendere tutto sempre più grande, più spettacolare che ne è conseguita. E non sempre un prodotto più grande o spettacolare corrisponde ad un prodotto migliore.
Sei episodi per concludere Il Trono di Spade, serie storicamente nota per i suoi sconfinati risvolti narrativi, sono pochi. Davvero pochi. Ma quella degli showrunner e della rete è una scelta comprensibile, se non inevitabile, per via di quella necessità di rendere tutto più epico ed accattivante per il grande pubblico di cui sopra. Pur avendo possibilità narrative smisurate, è innegabile che Benioff e Weiss abbiano dovuto fare i conti con delle necessità che sono a tutti gli effetti delle limitazioni, delle quali non si può non tenere conto.

L’ottava stagione è andata di fretta, è passata velocemente, ma questo era ampiamente prevedibile. I sei episodi che la compongono sono nettamente bipartiti, una metà dedicati alla lotta contro gli estranei e l’altra metà alla battaglia per il trono, ossia i due fulcri narrativi dell’intera serie. Se la prima parte della stagione è solida e molto fluida, con due episodi introduttivi che servono da recap degli avvenimenti precedenti, per tirare le fila di quanto seminato fino a quel momento e introdurre l’epica battaglia del terzo episodio, la seconda metà invece è quella meno riuscita, o meglio, è quella che era inevitabilmente destinata ad essere percepita come tale, perché, ad essere onesti, nessun finale poteva essere pienamente soddisfacente.

E se alcune delusioni sono a loro modo giustificate, soprattutto alla luce delle limitazioni e delle difficoltà insite in un’operazione come questa, molti passaggi di trama potrebbero essere considerati non pienamente coerenti con quanto seminato in passato, le linee narrative di Jon e Bran su tutti, ed altre soluzioni sono per lo meno discutibili, si pensi alla sottotrama legata a Brienne. Insomma, non è tutto oro ciò che luccica, ma c’è davvero tanto di buono in questa stagione che, per quanto giustamente discussa possa essere, resta un’operazione produttiva di non poco conto, molto attenta alla messa in scena, e non priva di pregi anche a livello narrativo. Non trascurabile, ad esempio, è la notevole gestione dei tempi scenici, infatti ad una narrazione che sembra procede troppo velocemente, non corrisponde mai una messa in scena dai ritmi accelerati. Weiss e Benioff, da fatto, sono riusciti a bilanciare e, in una qualche misura, smussare una narrazione portata avanti velocemente grazie a scene dai tempi distesi, a volte incredibilmente dilatati, che non sono mai riempitive o di ripiego, ma, anzi, assolvono ad una precisa funzione narrativa che, forse, nel suo restare implicita fa addirittura risparmiare tempo, si pensi ad esempio al contemplativo cammino di Tyrion e Jon dalle porte di Approdo del Re ai piedi della Fortezza Rossa nell’ultimo episodio.

Diventando sempre più grande, più spettacolare e sempre più costoso, Il Trono di Spade è diventato più bello, almeno a livello visivo. Se da un paio di stagioni a questa parte lo show sembra essere radicalmente cambiato, che lo si intenda nel bene o nel male, è anche per via del nuovo approccio visivo adottato dallo show, richiesto in parte dall’arrivo del famigerato inverno, ma in parte anche dovuto ad un investimento dell’emittente sul look della serie. Non solo una maggiore attenzione alla fotografia, che può addirittura concedersi di svolgere un ruolo diegetico, ossia narrativo, nella battaglia di Grande Inverno, come spesso avviene al cinema, ma anche un maggiore investimento su effetti speciali e visivi, quindi non solamente sulla CGI, che comporta soluzioni grafiche accattivanti e mirate, spesso riuscitissime.

Una regia sontuosa come al solito sfrutta al meglio tutte queste potenzialità visive. Unica nota negativa su questo versante è il non proprio eccelso lavoro di David Benioff e D.B. Weiss dietro la macchina da presa per il finale, molto derivativo di quanto fatto precedentemente da David Nutter e Miguel Sapochnik, i cui episodi avevano un’identità propria, riconoscibile e a loro facilmente ricollegabile, non proprio una cosa usuale in televisione. E proprio Sapochnick merita un plauso per il suo incredibile lavoro, perché se Nutter riesce a mettere in scena in modo sapiente le dinamiche di potere e i contrasti tra i personaggi, è a Sapochnik che spetta il compito di mostrare il punto d’arrivo di questi conflitti, sta a lui l’arduo compito di mettere Westeros a ferro e fuoco. “The Long Night” e “The Bells” sono due ottimi episodi soprattutto grazie alle intelligenti trovate registiche di Sapochnik, alla sua attenzione alle scene di massa, ai singoli dettagli che compongono il marasma della guerra, al suo sguardo vivo e vitale, sempre estremamente lucido e preciso sulla morte e la distruzione. Quest’anno vincerà sicuramente un Emmy per aver diretto uno dei capitoli più spettacolari della storia della tv, in futuro chissà, ma sicuramente ne risentiremo parlare.

L’ultima stagione de Il Trono di Spade è, innegabilmente, puro intrattenimento. Un’esperienza televisiva a tratti bellissima, a tratti disordinata, sicuramente piena, strabordante. E, cosa non meno importante, fedele a sé stessa fino all’ultimo, coerente sia nello spirito che nell’evoluzione dei suoi personaggi e nel discioglimento dell’intreccio narrativo. In questo caso il tempo è tiranno e alcuni elementi di trama finiscono per stonare proprio per la mancanza di tempo, e non per la mancanza di coerenza, come ad esempio la pazzia di Daenerys, che gli autori stanno seminando e suggerendo da anni e che, nonostante tutto, sembra comunque poco sviluppata per via del poco tempo che questa stagione, per forza di cose, gli ha potuto dedicare.

Interessante per il discorso della coerenza è anche la polemica sulle istanze politiche e sulle tematiche femministe: mai come in questa stagione è emerso quanto essere donna a Westeros sia un limite, ma ciò non è dovuto alle idee retrograde di un gruppo di sceneggiatori uomini, ma alle esigenze di realismo insite in una serie che, pur essendo un fantasy ambientato in un mondo immaginario, è comunque legata ad usi, costumi e politica del nostro medioevo, è il poco tempo a disposizione a non rendere evidente quanto in realtà certe logiche siano assolutamente coerenti all’interno di quell’universo narrativo. Ad esplicitare e rimarcare questa situazione c’è, nell’ultimo episodio, una battuta sulla democrazia, che giustamente nella medioevale Westeros è considerata un concetto risibile.

In definitiva, l’ottava stagione è la miglior conclusione possibile per una serie come Il Trono di Spade? Probabilmente no. Ma è una buona stagione? Assolutamente sì. Quest’annata della serie  di Benioff e Weiss è stata un’esperienza travolgente che, al netto di tutti i suoi difetti e di tutti i suoi limiti, valeva la pena di essere vissuta esattamente così com’è. Che piaccia o meno si è fatta la storia della tv in questi sei episodi, e non solo per questioni puramente economiche o di audience, ma anche per gli incredibili risultati a livello produttivo, che avvicinano come non mai il piccolo al grande schermo. Il confine tra sala e salotto si fa sempre più sottile, ed in parte è anche grazie a Il Trono di Spade.


VOTO: 6,5/10